«Un piccolo pezzo di muro giallo» lucido nell’oscurità, è ciò che vedo dalla finestra se mi appoggio al balcone, fumando il sigaro mentre la notte cala su Nantes. Ma non assomiglia a quello celebre dipinto da Vermeer nella sua Vue de Delft e di cui parla Proust nella Ricerca del tempo perduto. Un po’ più lontano, appena percettibile sopra la linea dei tetti, si distingue la punta della Torre Bretagne. E poi, sotto i lampioni, la linea doppia del tram che corre lungo una strada in cui non passa più nessuno, ora che la circolazione è stata fermata. Le finestre sono spente. Si direbbe che stiano tutti dormendo. Eppure non è così tardi. Ma sul mondo si è stesa una specie di sonno. Ognuno si addormenta nell’attesa che ritorni il giorno in cui la vita riprenderà. Il silenzio è straordinario. Con il caldo quasi estivo di questi ultimi giorni si può dormire con la finestra aperta senza alcun rischio di venire svegliati – se non dal canto stranamente ritrovato degli uccelli.
Il «confinamento» – come ormai si dice in francese, usando una parola che prima non usava nessuno – mi ha sorpreso nel momento in cui mi trovavo a Nantes. Da una parte è un’opportunità. L’occidente del Paese finora è stato risparmiato dall’epidemia. I casi nella regione della Loira e della Bretagna sono rari. Magari si tratta solamente della calma prima della tempesta, della tregua prima che l’onda dilagante del contagio invada la Francia partendo dalla capitale o dalle regioni dell’est e del nord in cui dilaga. Ma le raccomandazioni di prudenza imposte dal governo si applicano anche qui come da qualsiasi altra parte. La minaccia dell’epidemia sembrava quasi irreale – attualmente non conosco nessuno vicino a me che ne sia stato toccato – ma per il momento non scompare. È impossibile ignorare il fatto che la malattia, anche in questo stesso istante, colpisca migliaia di persone, decine di migliaia.
Quanto più l’umanità è sconvolta di fronte a un dramma, tanto più prova lo strano desiderio di darle un senso. Davanti all’epidemia, in mancanza della possibilità di guarire, non si resiste alla tentazione di trarne – sebbene prematuramente e con grande imprudenza – la morale. Per riprendere il titolo del bel libro tanto giusto che Susan Sontag aveva consacrato al cancro, si vuole che la malattia sia anche una metafora. Ma una metafora di cosa? Ognuno ha la propria idea, e la esprime volentieri. Da dove viene questa specie di frenesia verbale che, mentre il mondo si ritrova ridotto al silenzio, risuona non appena si accende la televisione, la radio, o quando si va in rete e vi si scopre incessantemente lo stesso chiacchiericcio assordante e interminabile?
Perché tutti i discorsi sull’epidemia si assomigliano: la presentano come se fosse una prova sulla quale è necessario trionfare e dalla quale si uscirà necessariamente migliori e cambiati, un castigo inflitto da un dio vago al fine di punire un’umanità noncurante degli equilibri – economici, ecologici o sanitari – che avrebbe dovuto rispettare e affinché, una volta espiati i peccati, ritrovi il senso stesso della misura che le mancava. La storia così raccontata ha tutti gli ingredienti di un cattivo film apocalittico come Hollywood ne produce a dozzine: con i suoi buoni e i suoi cattivi, i suoi stronzi e i suoi eroi, i suoi colpevoli e le sue vittime, ci fa assistere alla messinscena esaltata di una «fine del mondo» davanti alla quale lo spettatore esulta, convinto che non conoscerebbe altra fine al film che vive e vede se non il tradizionale ed edificante «happy ending» cui è stato abituato.
Si cita molto Camus. Il suo romanzo La Peste dice un’altra cosa. Se si deve combattere il Male, afferma Camus, non è necessario spiegarlo, poiché spiegarlo corrisponderebbe a giustificarlo. Trovare una ragione al Male significa dargli una ragione. In un certo senso non c’è nulla da comprendere. Poiché l’innocente muore, il medico raddoppia gli sforzi nella lotta che mette in campo contro la malattia, e il sacerdote, al suo fianco, davanti a questo scandalo assoluto che richiama solamente il silenzio, all’improvviso comprende che anzitutto è necessario non accordare alcun significato sacro all’epidemia. Agire come il primo, tacere come il secondo. È questo che ci insegna Camus.
Guardo il mio «pezzetto di muro giallo». Non è quello di cui parla Proust, che ha dipinto Vermeer e di cui qualcuno che non sia io farà una poesia. Da esso non mi aspetto alcuna rivelazione sul senso della vita. Ma finché dura, mi tiene compagnia durante la notte.