Là fuori tutto tace. Forse avrei dovuto raccogliere un po’ di realtà prima che arrivasse il perentorio invito a non uscire di casa per evitare qualsiasi contagio da coronavirus. Fissare voci, volti, sensazioni che ci fanno sentire in mezzo agli altri, nel frastuono quotidiano, partecipi ma non coinvolti. Estranei, ma non esclusi. Sarebbe stato un modo per sottrarmi al silenzio incombente di questi giorni che nessuna musica, anche la più bella, nessun passatempo per quanto sfizioso possono disperdere, perché è il brusio della vita che ha smesso di pulsare.
Ed ora è come se la città fosse sparita. Certo, dalla mia stanza vedo facciate e tetti, ma mi appaiono in una luce strana: come vecchi reperti, quasi immagini surreali sospese sul vuoto. Sulla strada non il rumore di un’auto né risate di passanti o pianti di bambini. Solo qualche cane che abbaia in lontananza.
Ma intanto nel mio giardino sono tornati merli, fringuelli e decine di passerotti scomparsi da tempo. Saltellano sui rami degli alberi in preda a esotici entusiasmi quando finiscono sulle foglie lucenti e flessibili di una palma che, indifferente agli inverni torinesi (per altro sempre più miti) ha attecchito in questo quartiere a ridosso della collina. I loro frullii, garruli e leggeri, mi offrono percezioni inconsuete come se mi invitassero a riscoprire la realtà proprio ora che essa tace, incalzata da un male insidioso e inafferrabile. No, non è nostalgia di idilli tardivi né una ventata di vecchio anticapitalismo romantico, ma lo stimolo a guardare altrove, dove il nostro immaginario si è talvolta spento, sopraffatto dai mille stimoli di una modernità che tutto sembra livellare e assorbire. Ma, allora, quel silenzio assordante e terribile là fuori non può essere l’occasione per riappropriarci di noi stessi e di un rapporto più autentico con la nostra vita?
Mi scuoto e torno per un attimo a guardarmi intorno. Vedo libri da ogni parte nel mio studio, sono da sempre gli strumenti del mio lavoro. Ma ora che sono costretto come tutti a questa forzata clausura mi appaiono in un’altra luce: come i baedeker di un viaggio senza confini, le mappe di un’esistenza che vuole ricostruirsi un mondo quando quello reale non è più disponibile. Ma attenzione, non per vivere in un’utopia senza confini, ma per meglio individuare le coordinate del nostro viaggio quotidiano. Certo oggi viene spontaneo riprendere in mano un paio di libri che in epoche diverse hanno raccontato terribili epidemie. Come il Decameron di Boccaccio che si apre su una spaventosa immagine di morte: la peste fiorentina del 1348, con la conseguente dissoluzione di ogni forma di società o di rapporto civile. Ma proprio quell’opera – e quindi il generoso verbum letterario – mirava in qualche modo a proporre i fondamenti di una nuova convivenza in cui riprendessero vigore tutti i principi d’affetto e di sangue che il morbo aveva dissolto.
E a secoli di distanza non è meno palese l’analogia con le situazioni descritte da Camus nel suo romanzo La peste del 1947 in cui si legge: «La somma era paurosa. In pochi giorni appena, i casi mortali si moltiplicarono, e fu palese a quelli che si preoccupavano dello strano morbo che si trattava di una vera epidemia». A cui si aggiunge, proprio come ora negli infiniti luoghi di dolore sparsi per il mondo, l’angoscia per il lutto degli affetti, la disperazione e la solitudine che in qualche modo richiama quella di K., il protagonista del Castello di Kafka, alla ricerca di risposte, consapevole che nulla ci fosse di più insensato e di disperante di quella sua attesa nel vuoto dell’esistenza.
Esempi che ci riportano all’oggi. Maturano la nostra consapevolezza e danno forse un senso al profondo disagio che percepiamo col passare delle ore e dei giorni. Mi sento isolato, eppure non solo. Attorno a me libri e autori accendono la fantasia, infondono speranza, costruiscono un mondo che tenta di confrontarsi con la morte. Anzi, come nel caso di Elias Canetti la combattono a viso aperto. Là fuori tutto tace, ma qui tra i libri il mondo s’inventa ogni giorno ed è pieno di amici e la speranza, prima o poi, uscirà anche di qui, come dal cuore della gente per tornare in strada a festeggiare la vita.