Fuori dalla mia finestra c’è una siepe. Niente di eccezionale, anche se una siepe, dopo l’Infinito di Leopardi, è una grande ricchezza per lo sguardo: uno specchio, un telescopio, una sfera di cristallo. Perciò guardo la siepe dalla mia finestra e non ho nemmeno la più pallida sensazione che quella siepe descriva il perimetro di uno spazio di prigionia. Al contrario. È una vista familiare, rassicurante: rassicurante perché, appunto, come tutte le siepi, è la siepe dell’Infinito, e familiare perché è la mia siepe, quella della mia casa, quella che vedo io dalla mia finestra. No, non è di questa siepe che vorrei parlare.
Il fatto è che una volta al giorno io la oltrepasso, questa siepe, attraverso il cancello che dà sulla strada, per andare a gettare l’immondizia. Da qualche anno l’azienda municipale ha spostato i cassonetti proprio davanti al mio cancello, ritengo per non disturbare l’attività del furgoncino con la scritta «vendo e compro dischi», parcheggiato poco più avanti da dieci anni, più o meno, ma non abbandonato, poiché con frequenza settimanale un tale arriva con uno scooter, ci sale a bordo, lo sposta in avanti o indietro di qualche metro, se c’è il posto, e riceve la visita di altri uomini che arrivano con la macchina, la fermano in seconda fila, scendono e montano sul furgoncino accanto a lui, nel sedile del passeggero. Ci restano un po’, poi scendono, rimontano in macchina e se ne vanno. Due, tre in una mattinata. Poi l’uomo richiude il furgoncino, rimonta sul suo scooter e se ne va. Così ogni settimana, da dieci anni.
Allora, dicevo, forse per non disturbare questo negozio, l’Ama, curioso nome dato all’azienda della nettezza urbana di Roma, che con questo imperativo mette d’accordo tutti perché chi se la sente mai di contraddirlo – «ama!» –, l’Ama, dicevo, ha spostato i cassonetti più in giù, ammucchiandoli davanti al mio cancello. Perciò davanti al mio cancello c’è molta puzza, e in più, proprio per l’inesistente distanza da percorrere per gettare l’immondizia (non nascondo che fino a un mese fa mi sforzavo di considerarlo un vantaggio), io non ho scuse per fare passeggiatine col sacchetto in mano. Mascherina (per la puzza, non per il virus), cancello, un passo, cassonetto, un passo indietro, cancello, via la mascherina. Un minuto scarso. E tuttavia, qui lo confesso, io a sera, quando vado a gettare l’immondizia, trasgredisco: attraverso metà della strada e mi fermo lì, sulla striscia di mezzeria, a guardare la cupola di San Pietro che si staglia alla fine della strada. E lì succede la cosa, ogni sera, sempre la stessa.
Tutto familiare, fin lì, finché il gelo dell’assenza di macchine, uomini e donne, joggers, autobus e cani, quel gelo non s’impossessa della scena, tutte le sere, sempre, stringendomi lo stomaco. E io lo so cos’è questa sensazione, so come si chiama: si chiama «Das Unheimliche», in tedesco, perché a darle il nome è stato Sigmund Freud – tradotto in italiano con «Il Perturbante». È esattamente quello che provo io: la sensazione di familiarità e di estraneità mescolate insieme in un unico oggetto. La rassicurazione e la paura. La quiete e la tempesta. Tutto insieme a produrre un’inquietudine profonda, oscura. Il Perturbante. Das Unheimliche. Oltre la siepe, davanti alla mia finestra.