Betta sedette sull’orlo della vasca.
Si accorse che stava tremando, per lo sforzo di non aggredire Tom, a pugni, a calci, a schiaffi.
Si coprì il viso con le mani e rimase così.
L’istinto l’avrebbe portata a ribattere: e tu? Che cosa hai guadagnato tu? Ti sei fatto prestare dei soldi da un amico, io li ho accettati da uno sconosciuto. Che differenza c’è?
Ma una voce, dentro di lei, una voce che non ascoltava quasi mai, le suggerì di tacere. Di cedere.
Di farsi vedere sopraffatta. Di dargli partita vinta e lasciare il ring con la dignità degli sconfitti.
Si alzò in piedi, passò davanti a Tom che le afferrò una spalla, e la costrinse a fermarsi, a guardarlo in faccia.
«Dove scappi?»
«E dove vuoi che scappi?»
Il tono era talmente triste da impedire ogni ulteriore approfondimento del tema. Qualsiasi azione potessero progettare per dare un assetto al vuoto che sentivano entrambi, era destinata a naufragare per la ristrettezza dell’ambiente in cui vivevano.
Così come ogni litigio, ogni sgarbo dell’uno o dell’altra, ogni incidente era destinato a scivolare nel ritmo ottuso dell’intimità, e trasformarsi in routine, fossero quei 15 anni (tanto era durata la loro relazione) trascorsi a viversi addosso o la condizione di povertà che impediva ogni rilancio, ogni premio, ogni fuga. Ogni celebrazione.
«Fatti una doccia», disse Betta, dopo aver annusato la felpa addosso a Tom «Io vado a dormire».
Quando sentì l’acqua scorrere nel bagno aprì il divano letto e si distese su un fianco.
In attesa.
Gli occhi chiusi.
Dopo qualche minuto sentì il corpo di Tom aderire alla sua schiena. La pelle ancora umida, il sesso che spingeva contro la curva delle sue natiche, con la violenza di un desiderio contraffatto.
Non avevano voglia di fare l’amore.
Ma non erano in grado di fare altro.
Verso sera, dopo aver dormito, spossati per la fatica di consentire ai loro corpi di annullare le distanze provocate dal litigio, si vestirono con i loro abiti migliori, Tom indossò la giacca nuova e Betta un vecchio maglione di cachemire, scollato, verde mela che le lasciava continuamente scoperta una spalla, ora la destra, ora la sinistra, seguendo i movimenti del suo corpo quasi fosse dotato di vita propria.
Dovevano andare a prendere Sara, che era rimasta dai nonni e Esther li aveva invitati a cena.
«Venite insieme?» aveva chiesto aTom, con una sfumatura di diverti- mento.
Un secco «sì, certo» era stata la risposta.
Camminavano adagio verso il Ghetto, dove abitavano Esther e Candido, camminavano tenendosi per mano, stupiti di essere tornati a tenersi per mano così rapidamente.
E senza che Betta si fosse impegnata a inventare una giustificazione ragionevole ai soldi che aveva ricevuto e speso.
Erano tornati a muoversi sui binari della consuetudine matrimoniale, nessuno dei due poteva scartare di lato, o tornare indietro, senza deragliare, dovevano procede adagio, appaiati, paralleli, silenziosi.
Quando arrivarono sotto il palazzo antico dove abitavano i suoi genitori, Tom impedì a Betta di suonare subito il citofono.
«Aspetta».
Dai ristoranti allineati fra il Tempio e la sinagoga, si spandeva il profumo dei carciofi alla Giudia, dai tavoli sistemati accanto alle stufe si alzava, a ondate, la rumorosa allegria del vino e del cibo. Il ghetto dove vivevano, nel secolo scorso, gli ebrei romani, era una delle attrazioni turistiche della città. Il quartiere era stato svuotato il 16 ottobre del 1943, dai tedeschi, una deportazione di massa, resa ancora più atroce dalla beffa che l’aveva preceduta: le famiglie ebree che vivevano in quell’incrocio di stradine lastricate di cubetti di porfido, avevano consegnato tutto l’oro che possedevano ai nazisti, perché li lasciassero in pace. E, subito dopo questo collettivo sforzo economico, erano stati comunque strappati, nella notte, dalle loro case.
(32 – Continua)