Le nuove povertà/30

/ 25.07.2022
di Lidia Ravera

Era angosciata perché doveva giustificare la notte trascorsa a casa di Von Arnim o era angosciata perché Tom l’aveva accusata di aver partecipato allo storico baratto fra giovani donne povere e vecchi uomini ricchi? Le aveva dato della puttana?

Si chiese se, nel contesto di un litigio, potesse essere giustificato, quello che era, sotto ogni aspetto, il più classico di tutti gli insulti. Il più tradizionale. E il più sessista.

Era davvero, lei, una giovane donna povera, disposta ad affittare le sue grazie, non possedendo beni immobili né un conto in banca che non fosse asciutto? Giovane non lo era più, quanto ai soldi… se avesse avuto davvero un’anima mercantile sarebbe rimasta con Jacopo. Si chiese se era il caso di farla presente anche a Tom, quella modesta volgare verità, e se era più efficace gridarglielo in preda all’ira o recitarlo a bassa voce, con determinazione. Non astiosa. Addolorata.

Quando il taxi arrivò a destinazione aveva deciso che doveva tacere. Doveva mostrarsi altera, ma sofferente, perché la sofferenza è sempre un’attenuante. E lei soffriva. Soffriva veramente. Nessun bisogno di mentire. Si sarebbe limitata all’esercizio di una signorile reticenza. Non si sarebbe giustificata. Avrebbe provato a infilarsi di soppiatto nella vita di sempre, senza rendere conto a nessuno di quella notte assurda.

Se si fosse rivelato necessario, avrebbe mostrato le sue ferite, quelle inferte da Tom (che non si credesse innocente) e quelle che si era procurata da sola, con la sua mania di fare sempre il punto sulla sua vita e sulla vita degli altri. Di calcolare i danni, di giudicare le ambizioni. Il portone era aperto.

Salì le scale, tenendo i 38 euro che le aveva restituito il tassista stretti nella mano. Tremava di freddo. Sotto lo zerbino non c’erano le chiavi di casa. Se lo aspettava. Faceva certamente parte della punizione, quella dimenticanza. Oppure Tom era in casa ad aspettarla, quindi doveva mettersi in tasca il resto dei 50 euro. E tenerli ben nascosti.

Suonò il campanello, che emetteva un trillo lieve, difficile da sentire. Stava per suonare ancora quando la porta si aprì. Tom era davanti a lei, una felpa sui pantaloni del pigiama. La guardava come se non riuscisse a decidere che emozione provare. Aveva la barba lunga e gli occhi rossi. Nel piccolo appartamento che entrambi detestavano stagnava un alito pesante, una penombra di finestre chiuse nonostante fossero quasi le dieci del mattino. Betta vide i cocci di vetro sul pavimento della loro unica stanza, le parve di sentir pulsare, in quel disordine, una disperazione maschile. Ne provò pena. Per Tom, per il loro matrimonio.

«Perdonami», disse. E poiché lui continuava a guardarla senza dire una parola, aggiunse: «Abbiamo esagerato». Le salì alle labbra un’espressione inglese: overreacting. Riuscì a tenersela per sé ed entrò in casa. La stanza era immersa in un’atmosfera di malattia, gli scuri erano accostati, nell’unica sottile lama di sole ballavano particelle di polvere. Il divano letto non era stato aperto. Meccanicamente, ma cercando gesti gentili, Betta raccolse il vetro dei calici frantumati dal pavimento che nessuno spazzava da giorni. Sentiva che Tom era rimasto in piedi, alle sue spalle, fermo come se volesse far risaltare, con la sua immobilità, l’affaccendarsi di lei nella ristrettezza dell’ambiente.

Una mosca nella prigione di un bicchiere rovesciato.

Quando ebbe finito di riporre o gettare nella pattumiera ogni oggetto scagliato in giro, si voltò verso l’autore di tutta quella esibita negligenza domestica e disse: «Possiamo parlarne o non parlarne, come vuoi, ma guarda che non è successo niente. Ho dormito nella stanza della moglie morta. Ho bevuto un po’ di vino. Mi sono fatta un bagno e stamattina me ne sono andata che il vecchio era ancora nel pieno del sonno».

(30 - Continua)