Poiché Tom non rispondeva, Betta entrò nel bagno che le parve ancora più angusto per l’inevitabile confronto con quello di Casa Von Arnim. Si spogliò, prese dal cassettone, dipinto di rosso a testimonianza di trascorse allegrie, la biancheria, un paio di jeans, un maglione.
Aprì al massimo la doccia. Ma la pressione dell’acqua era debole e il calcare aveva tappato parte dei fori del soffione.
Non c’era niente di rigenerante in quello sgocciolio miserabile.
Pensò di nuovo al bagno annesso alla camera da letto della defunta signora Von Arnim.
Doveva essere rassicurante svegliarsi ogni mattina in quella casa spaziosa, dove ogni oggetto ogni arredo ogni sfumatura sembrava partecipare d’un idea di bellezza, di classe, di gusto, di stile.
Le tornò alla mente sua madre, quando raccontava del Castello di un certo barone monegasco che si era invaghito di lei.
Le salivano alla gola gli stessi aggettivi: classe, gusto, stile.
I saloni, i salottini, l’estensione delle camere da letto che anch’esse avrebbero potuto essere saloni, o salottini.
I domestici con la livrea. I vassoi sempre carichi di coppe di champagne.
L’aveva visto soltanto una volta, sua madre, il Castello, prima che il padre le vietasse di proseguire nella carriera della bellezza.
Mille volte l’aveva raccontato.
Quando Tom spalancò la porta Betta si stava spazzolando i capelli con un vigore nervoso.
«Non mi parlerai mai più?», gli chiese, fermando la mano che stringeva la spazzola.
Per tutta risposta Tom le porse il sacchetto bianco con l’abito da sera di seta rossa.
«L’ha portato un domestico di colore», disse, fiero della sua calma.
Betta buttò il sacchetto per terra, stizzita.
«L’avevo detto che non lo volevo. Adesso glielo butto dalla finestra».
Tom prese l’abito dal sacchetto bianco e lo osservò tenendolo con due mani.
Poi lo avvicinò al viso e lo annusò.
Sentì il profumo di Betta, quelle due gocce di Poison, Dior che metteva tutti giorni all’interno dei polsi. Glielo regalava a ogni ricorrenza Esther, e lei ne faceva un uso oculato, ma quotidiano.
La sua pelle di bruna lo tratteneva e lo intensificava.
Era il suo profumo ed era sull’abito da sera che il vecchio le aveva regalato.
Quindi l’aveva indossato.
«Hai fatto un defilé per lui», disse Tom.
Betta rivide se stessa con l’abito addosso mentre si aggirava per i bui corridoi di quell’appartamento enorme e ne provò vergogna.
Abbassò gli occhi, si strinse nelle spalle.
«Pensa quello che vuoi», disse, «Mi sono provata il vestito, gliel’ho restituito, gli ho detto che non andrò alla festa»
«Piuttosto contraddittorio, non credi? Rifiuti l’invito a una festa, ma vai a dormire a casa sua. Capiti nel suo scannatoio verso sera e ne esci…»
Betta lo interruppe:
«Mi hai chiusa fuori, stronzo! È colpa tua se sono andata dal vecchio»
«Io non ti ho chiusa fuori, sei tu che sei scappata come una deficiente senza prenderti le chiavi!»
«Quando hai visto che non avevo preso né le chiavi né il cellulare potevi restare a casa invece di…»
«Certo. La signora scappa come se la inseguisse il demonio per una frase, una frase, tre parole e il povero stronzo resta a casa ad aspettare che torni o magari addirittura la insegue come nel finale di un film per dementi…»
«Tu quelle tre parole che hai detto non le dovevi nemmeno pensare, brutto pezzo di merda!»
«Ah no, certo. La signora è al di sopra di qualsiasi sospetta prostituzione!»
«Ma come ti permetti…»
«Mi permetto eccome. Mi permetto e mi permetterò finché tu non mi spieghi come mai avevi improvvisamente i soldi per portare Sara al ristorante, per comprare il pesce spada, per pagare il conto del negozio dove pigliamo roba a credito da due mesi? Me lo vuoi spiegare? Non credo che sia il pagamento di una tua lucrosa prestazione professionale come hai detto a nostra figlia. Non c’è stata nessuna prestazione professionale. Tu non guadagni un euro da un secolo».
(31 – Continua)