Non ho mai nascosto la mia predilezione per la collana I Cristalli dell’editore Dadò, che da un quarto di secolo offre regolarmente in italiano i migliori titoli della produzione francofona e germanofona, contribuendo come poche altre iniziative culturali ad alimentare, alle nostre latitudini, lo spirito confederale. Al di qua del San Gottardo tendiamo infatti a guardare troppo spesso a sud, e non senza ragioni, dimenticando quanto pesi – in termini identitari e di consapevolezza storica – l’apporto fornito nei secoli dalle altre lingue nazionali (il romancio meriterebbe un discorso a parte). Che questa continua operazione di mediazione linguistica e culturale, simile alla spoletta di un telaio meccanico (un Alptransit di carta!), abbia un valore non solamente per noi ma per l’intera italofonia è testimoniato dal fatto che l’ultimo libro della serie si è meritato, lo scorso 13 febbraio, la prima pagina della Domenica del «Sole 24 Ore». Le 800 pagine dedicate agli anni in Svizzera di François-Marie Arouet, più noto come Voltaire, sono in effetti qualcosa di eccezionale, e non soltanto per la mole del volume.
All’ampio saggio storico di Franco Monteforte, che non teme di scendere fin nei dettagli più minuti e che scrive, di fatto, un libro a sé, fanno seguito 135 lettere selezionate tra le oltre 4000 spedite da Voltaire nei pochi anni del suo soggiorno elvetico (1754-60), curate e tradotte per l’occasione da Carlo Caruso. Numeri da capogiro, direbbe un cronista sportivo, che ben rispecchiano il ruolo che il carismatico personaggio aveva saputo assumere nella società dell’epoca, entro la quale era costantemente in movimento tra Parigi, la Prussia, la Svizzera e la Lorena, in cerca di una patria sufficientemente liberale e moderna – cioè laica o presunta tale – da poter accogliere un pensatore per certi versi ancora troppo spregiudicato. Era tale la «massa» che si spostava ogni volta assieme alla figura di Voltaire, da innalzare inevitabilmente il livello delle acque tutt’attorno: ne sanno qualcosa le tranquille cittadine lacustri di Ginevra e Losanna, che non uscirono indenni dall’incontro-scontro con il grande scrittore.
Giunto in Romandia in seguito a un bando di Luigi XV, che non gli aveva perdonato gli elogi del suo predecessore (Le Siècle de Louis XIV, 1751), Voltaire si divise per alcuni anni tra la residenza ginevrina delle Délices e quella losannese di Le Montriond. Nei due comuni, poiché poteva permetterselo, ricreò un ambiente intellettuale ed estetico all’altezza della sua personalità estrosa, sfruttando nel contempo le caratteristiche che i due capoluoghi gli offrivano: a Ginevra la presenza di una vivace industria tipografica e di un’oligarchia protestante «illuminata» (meno però di quanto lui sperasse), a Losanna invece la possibilità di mettere in scena opere teatrali, un genere ancora proibito nella città di Calvino.
A interrompere l’idillio, inaugurando una serie di incomprensioni che lo avrebbero opposto anche a Rousseau, fu la lunga voce «Ginevra» che Voltaire suggerì e quasi dettò a D’Alembert per il settimo volume dell’Encyclopédie: una vera e propria strategia ideologica per promuovere il borgo sul Lemano come la nuova «capitale europea della ragione e della filosofia», capace di unire «le virtù repubblicane della libertà a quelle morali della tolleranza e della religione razionale» (così Monteforte a pagina 138).
Senza forse avvedersene, l’autore di Candide aveva finito per proiettare sulla società ginevrina del tempo, e soprattutto sui suoi pastori, i propri ideali deistici e la propria idiosincrasia anti-sacerdotale, in una misura certamente eccessiva rispetto alla realtà dei fatti. Aveva insomma forzato la mano, fino al punto di mettere in discussione la stessa fede protestante e la radicata tradizione calvinista della città, un cristianesimo da lui inteso soltanto in termini razionali e ridotto a un nucleo di precetti morali universalmente condivisibili. Il desiderio di portarvi il teatro, principale motivo di scontro con Rousseau, fu la goccia finale prima del suo definitivo trasferimento a Ferney, pochi metri di là dal confine, ma ad anni luce di distanza.
Chi abbia voglia di compulsare le lettere riportate in appendice, vi troverà tutta la caustica e brillante ironia cui Voltaire non rinunciava mai, nemmeno quando si trattava di felicitarsi per un lieto evento: «Faccio i miei complimenti, mio caro signore, all’umanità in generale, e a Losanna in particolare, se la vostra opera vi somiglia. Vi ringrazio di mettere al mondo dei filosofi: presto bisognerà che lasci questo mondo maledetto dove ve ne sono così pochi. Mi consolerò sapendo che voi ne continuate la stirpe» (a Clavel de Brenles, 29 marzo 1755). Per non dire degli scambi epistolari con l’amato-odiato Rousseau, cui non si perita di dire: «Ho ricevuto, signore, il vostro libro contro il genere umano, e ve ne ringrazio. Piacerete agli uomini: ai quali dite delle verità che li riguardano, ma senza correggerli. […] Mai si è impiegato tanto spirito per volerci rendere bestie: a leggere la vostra opera vien voglia di mettersi a camminare a quattro zampe» (30 agosto 1755, ringraziandolo a modo suo per il Discorso sulla disuguaglianza).
Ma l’apoteosi del cinismo volteriano, nutrito del suo proverbiale anticlericalismo, si toccò probabilmente il 24 novembre di quell’anno, in una lettera a Jean-Robert Tronchin ispirata come il poema omonimo al recentissimo terremoto di Lisbona: «Centomila formiche nostre vicine, schiacciate d’un colpo nel formicaio, la metà morente senza dubbio fra dolori indicibili in mezzo ai detriti […]. Che triste gioco d’azzardo è il gioco della vita umana! Che diranno i predicatori, soprattutto se il palazzo dell’inquisizione è rimasto in piedi? Mi lusingo di credere che almeno i reverendi padri inquisitori saranno rimasti schiacciati come tutti gli altri». Amen, con tanti saluti alla carità cristiana.
Bibliografia
Carlo Caruso (traduttore) e Franco Monteforte (curatore), Gli anni in Svizzera, Locarno, Dadò, 2021.