Per quanto, al giorno d’oggi, ciò possa facilmente apparire improbabile a molti esponenti delle giovani generazioni, c’è stato un tempo in cui un viaggio fino al Polo costituiva un’avventura ben più azzardata di qualsiasi futuristico lancio spaziale. Negli anni dieci del ’900, la conquista di Artide e Antartide rappresentava infatti il supremo obiettivo colonialista di ogni nazione politicamente rilevante; e forse non in molti sanno che l’unico esploratore polare di nazionalità svizzera ad aver partecipato a quella magica stagione è stato, in realtà, uno dei membri più importanti dell’Australasian Antarctic Expedition, presente in territorio antartico tra il 1911 e il 1914 – nello stesso periodo in cui le più celebri spedizioni di Scott e Amundsen si sfidavano per la conquista del 90° parallelo.
Xavier Mertz, questo il nome dell’esploratore elvetico, era nato a Basilea nel 1882, e sebbene all’epoca della sua partenza per il Polo Sud non avesse ancora trent’anni, era già noto come eccellente sciatore e alpinista; il che gli permise di superare l’ostacolo presentato dal suo passaporto straniero e di entrare nella cerchia dei prescelti per la spedizione antartica australiana, guidata dal coetaneo e «veterano del Polo» Douglas Mawson – i cui obiettivi, prettamente scientifici, andavano ben oltre la semplice «corsa al Polo» per incentrarsi piuttosto sulle ricerche meteorologiche e geologiche. Mertz venne così accolto come responsabile delle mute di cani da slitta, rivelandosi non solo un lavoratore infaticabile ma anche un uomo attento e affettuoso nei riguardi dei compagni d’avventura – su tutti, l’inglese Belgrave Ninnis, a cui si sarebbe particolarmente affezionato. E fu proprio grazie a Xavier che la bandiera rossocrociata poté a lungo fare bella mostra di sé alle latitudini antartiche, sventolando dalla cima della slitta da lui pilotata.
È quindi facile immaginare l’eccitazione di Mertz e Ninnis nell’essere prescelti come soli compagni di Mawson per la marcia del «Far Eastern Party», destinato a esplorare le coste dell’area nota come Victoria Land: e certo niente lasciava presagire l’orrore a cui il povero Xavier era destinato ad assistere poche settimane dopo la partenza, quando Belgrave e la sua slitta vennero inghiottiti da un crepaccio apertosi di colpo nel terreno ghiacciato. A nulla valse la disperazione di Mertz, a lungo chino sulla voragine a chiamare il nome dell’amico; lui e il capospedizione si ritrovarono d’un tratto compromessi dalla perdita della maggior parte dei cani e delle scorte di cibo – e a ben cinquecento chilometri dalla base di Cape Denison, dove gli ignari compagni ancora li attendevano.
I giorni successivi sarebbero stati un vero e proprio calvario: seppure devastato dalla perdita di Ninnis, Mertz avrebbe stretto i denti e, insieme a Mawson e ai sei cani superstiti, proseguito in una marcia che appariva ormai senza speranza. Ma il fato avverso li colpì nuovamente quando Xavier cominciò a mostrare i segni di un progressivo deterioramento fisico e mentale, cadendo, nel giro di pochi giorni, in una sorta di coma. La teoria più accreditata sulle cause di questo crollo psicofisico ipotizza un avvelenamento dovuto al consumo di fegato di cane Husky, molto ricco di vitamina A e quindi tossico per l’organismo umano; e per quanto Mawson abbia accudito il compagno meglio che poteva, cercando di nutrirlo e d’impedire che si facesse del male nei momenti di peggior deliquio, il declino di Mertz lo portò dall’incoscienza alla morte con agghiacciante quanto prevedibile rapidità.
Rimasto ora davvero solo nel raggelante vuoto della costa antartica, ad ancora centosessanta chilometri da Cape Denison e privo di alcun genere di sostentamento, Douglas seppellì con solenne dolore il compagno e, come un martire, proseguì verso la meta, sicuro di trovare anch’egli la morte lungo la via. Tuttavia, contro ogni previsione, dopo quasi un mese di sofferenze indicibili riuscì a raggiungere la meta – sebbene in uno stato tale da spingere gli increduli compagni a domandargli quale dei tre dispersi lui fosse. E per quanto, negli ultimi anni, più di un biografo privo di scrupoli sia giunto ad accusare Mawson di aver «causato» la morte di Mertz (così da potersi salvare grazie a un tempestivo atto di cannibalismo), qualsiasi serio studioso della storia dell’esplorazione polare può facilmente confermare come il leader australiano non meriti affatto una simile, ridicola insinuazione; e chi scrive ritiene che, lungi dal rappresentare un insulto a Mertz e Ninnis, la miracolosa sopravvivenza di Douglas appaia piuttosto come il suo tributo più onesto e toccante alla preziosa memoria di chi non ha mai fatto ritorno.
Certo, davanti a nomi altisonanti come quelli dei già citati Amundsen e Scott, è facile commettere l’errore di considerare Xavier Mertz come una semplice figura secondaria nell’olimpo della grande avventura polare di inizio ’900; tuttavia, ogni singolo particolare della quieta, generosa modestia del giovane basilese manifesta e testimonia quell’antica (e oggi quasi anacronistica) grandezza d’animo che ha sempre contraddistinto ogni esponente dell’epoca d’oro delle esplorazioni tra i ghiacci – dai leader e comandanti, fino ai semplici uomini di fatica.
Forse perché, all’epoca, tali imprese quasi suicide non erano considerate solo avventure estreme da intraprendersi in cerca di gloria, quanto piuttosto autentiche immersioni nei più reconditi abissi dell’animo umano; una ricerca del Graal riservata ai rari, nobili individui disposti a praticare quella che l’esploratore Apsley Cherry-Garrard chiamava «la rinuncia del sé», mettendosi al servizio altrui per conferire così uno scopo più alto all’esperienza terrena. E ogni cosa in Xavier Mertz – dalla sua abnegazione e spirito di sacrificio, fino all’immane desiderio di riuscire, e al toccante rapporto con Ninnis – ci riporta a questi ideali eterni, troppo spesso accantonati nella frenesia odierna del «tutto e subito» a cui siamo ormai assuefatti.