A trent’anni dalla morte di Jean-Michel Basquiat (New York, 1960-1988), leggendo la corposa biografia che Michel Nuridsany dedica alla sua persona (Joahn & Levi, 2016) la vicenda di chi venne lanciato come il «primo artista nero» di successo degli Stati Uniti appare ora come un evento forte, doloroso e, non da ultimo, furbescamente sfruttato.
Pittore di indubbio talento, dalla personalità fragile, Basquiat, a dispetto di quanto sottende la citazione di Gilbert & George posta in esergo al volume («Se ti vuoi esprimere come artista, devi essere pazzo, estremo, fuori di testa. (...) Se sei integrato, a qualsiasi livello, non accadrà nulla»), nel corso della sua carriera fulminante presto venne risucchiato – e, di conseguenza, tragicamente integrato – nel vortice di quel Moloch che è l’autentico padrone dell’arte contemporanea: il mercato. Se l’essenza della sua pittura non fu vittima di questo processo, lo stesso non si può dire della sua vita e di quanto, oggi, come una sorta di aurea, circonda il «mito Basquiat».
Figlio di una portoricana e di padre haitiano, Jean-Michel Basquiat entra in contatto col mondo dell’arte già bambino: sua madre, che si rivelerà psichicamente instabile, sarà la prima a fargli visitare le sale del Brooklyn Museum, del MOMA e del MET. Crescendo, il ragazzino si dimostra particolarmente capace e la sua passione per il disegno, con gli anni, va intensificandosi; sua fonte di ispirazione saranno, soprattutto, i fumetti e il cinema. Successivamente, dopo le prime, «rimbaudiane» fughe da casa – il parallelo col poeta francese, anche se non sempre convince, è più volte ribadito da Nuridsany – Basquiat incontra il writer Al Diaz, con cui dà vita a SAMO©, pseudonimo col quale firmeranno le poetiche, assurde tag che, dal 1978, prendono a serpeggiare sui muri di Manhattan.
Questa parte dell’opera di Basquiat è particolarmente affascinante e qui, sì, la sua storia si dimostra come una ribellione a qualsiasi potere e alla sottomissione; viene da pensare al giovane Alfred Jarry che, allo stesso modo, assieme ai compagni del liceo, crea sui banchi la saga di Ubu, caricatura del prof. Hébert destinata a divenire una delle più irriverenti satire dell’autoritarismo. Infatti, SAMO© (abbreviazione di «Same Old Shit») si presenta come una sorta di religione, di filosofia che mira a smascherare le falsità della propria epoca attraverso aforismi a effetto lasciati sulle pareti. Presto le tag dei due writer attirano l’attenzione dei media, finché, a causa di screzi interni, la pratica viene abbandonata e Basquait imbocca altre strade.
Lasciata la casa paterna, per un periodo vive per strada, facendosi ospitare da amici e conoscenti, dedicandosi alla creazione di cartoline e magliette che cerca di vendere ai passanti. Da sempre è ossessionato da un desiderio: diventare una «star»; questa mania tipicamente americana, che, come si evince dal libro di Nuridsany, va letta tenendo conto delle difficili condizioni della comunità nera, verrà coronata alcuni anni dopo, quando il «New York Times Magazine» lo immortalerà in prima pagina con un completo Armani imbrattato di vernice. Avvicinatosi alla scena musicale underground, Basquiat fonda i Gray – band nella quale suona vari strumenti – e interpreta il ruolo principale nel film New York Beat (uscito nel 2000 col titolo Downtown 81) del fotografo ticinese Edo Bertoglio.
Particolarmente dedito alle droghe, sempre capace di sedurre l’ennesima ragazza di turno, Basquiat passa poi radicalmente alla pittura e si distingue per l’innata forza dei suoi dipinti; una pittura che, dopo le prime importanti collettive e l’incontro con la gallerista Annina Nosei – sarà lei a offrirgli un luogo per lavorare, negli scantinati dei suoi spazi espositivi – qualcuno paragonerà a quella dell’ideatore del concetto di «art brut», parlando di un «Dubuffet della strada». Scritte spezzate, corpi affastellati e automobili, macchinari, strade, unitamente a strati di colori in frantumi incessantemente sovrapposti gli uni agli altri sono la materia vibrante di questo universo fatto di caos organizzato, di dolore e paradossale armonia.
A questo punto, la sua ascesa sembra inarrestabile; un’ascesa che è, al contempo, raggiungimento dell’olimpo del mondo dei «big» – cominciano anche le collaborazioni con uno dei suoi miti: Andy Warhol – e sprofondamento nella dipendenza dalle sostanze stupefacenti e dal denaro che, se prima decisamente scarseggiava, ora scorre a fiumi per poi svanire in pochissimo tempo a causa dei suoi vizi. Un percorso autodistruttivo, questo, che non poco ricorda quello di altri grandi della cultura statunitense: Truman Capote, Robert Mapplethorpe. Infine, dopo le importanti mostre fra Stati Uniti, Italia, Svizzera, Inghilterra, Francia, Olanda, Giappone e Costa d’Avorio, nel 1988, a soli ventisette anni, Jean-Michel Basquiat muore per overdose nel suo loft di Great Jones Street.
Il merito di Basquiat. La regalità, l’eroismo e la strada, questo il titolo del volume che Michel Nuridsany gli consacra, è quello di porre l’accento sul contesto culturale a cui, inevitabilmente, l’opera di Basquiat attinge; impossibile comprenderne la portata senza tener conto del mondo afroamericano che quegli anni hanno alle spalle – il Ku Klux Klan, Martin Luther King, Malcolm X, il Black Panther Party, etc – e di fronte: l’hip hop, i writers e quant’altro.
Inoltre, seppure con alcuni cedimenti, Nuridsany cerca di non soffermarsi sulla superficialità dorata del mito dell’artista bello e dannato per dimostrare quanto Basquiat fosse, come ogni creatore, anche un instancabile artigiano, poiché «non si dipingono mille quadri in otto anni senza lavorare assiduamente, senza votarsi anima e corpo alla dimensione più segreta, più silenziosa, più rivelatrice della propria vita».