Giovan Battista Armenini nasce a Faenza intorno al 1533 da Pier Paolo Armenini e Laura Zanolini. Alcuni studiosi, come Gian Marcello Valgimigli e Achille Calzi, ritengono abbia svolto l’apprendistato presso Luca Scaletti detto il Figurino da Faenza, già collaboratore di Giulio Romano a Mantova.
A 15 anni si trasferisce a Roma. Itinerario obbligato per ogni formazione artistica. In quegli anni lavorano a Roma Perin del Vaga, Marco Pino, Pellegrini Tibaldi, Luzio Romano, Daniele da Volterra. Nel 1556 assieme a Marco da Faenza lasciano Roma temendo un nuovo Sacco. Approdano a Milano. Nel testamento della sorella del 24 novembre 1562 l’Armenini viene citato come «Rev. D. Jo. Baptista frati carnali dicte testatricis». Una vocazione religiosa probabilmente coatta, derivata dall’eresia romagnola dopo il Concilio tridentino. L’unico suo dipinto rimasto è l’Assunzione della Vergine ora nella Pinacoteca di Faenza. Durante questi anni, nella tranquillità della provincia, scrive il trattato De’ veri precetti della pittura, stampato nel 1586 da Francesco Tebaldini di Ravenna. Nel 1603 rinuncia alla carica di Rettore della Chiesa di San Tommaso. Muore a Faenza intorno al 1609.
Julius Schlosser Magnino nella sua Letteratura artistica scrive che il libro dell’Armenini è «uno dei documenti più preziosi per conoscere la pratica degli studi nel periodo del manierismo». Un libro da «saggiare nello spessore delle sue pagine gremite di spunti, di ricordi, di riflessioni, di proposte», chiosa Enrico Castelnuovo.
Armenini si trova in un momento di decadenza dell’arte. Entro il terzo quarto del secolo muoiono tutti i grandi artisti: Raffaello nel 1520, Rosso e Parmigianino nel 1540, Polidoro e Giulio Romano nel 1546, Sebastiano del Piombo e Perin del Vaga nel 1547, Pontormo nel 1556, Michelangelo nel 1564, Bronzino nel 1572 e Tiziano nel 1570. Alla «terza età» vasariana, quella del massimo splendore dell’arte, non può che seguire un lento declino. Anche perché non si vedono all’orizzonte altri artisti che possano prendere il loro posto.
Nel Proemio Armenini scrive che sono «venuti meno quegli artefici che con tanta eccellenza e felicità l’avevano sollevata, né se ne vedon rinascere de gli altri in gran parte come quelli perfetti». Per queste ragioni bisogna imparare quelle regole e precetti che servono per ritornare a fare della grande arte. E dato che, secondo lui, non ci sono libri che la mettono «in scrittura» redige questo trattato dove, per cominciare, bisogna seguire i modelli dell’antichità classica, come aveva fatto la generazione di Taddeo Zuccari copiando la Sistina, i marmi e i bronzi di Roma.
Il testo è interessante per vari motivi. Innanzitutto perché fornisce dettagli importanti sul lavoro pittorico di vari artisti, come Luca Cambiaso e Tintoretto, poi perché racconta di personaggi e avvenimenti, con aneddoti e pettegolezzi, come la vendita dei disegni di Perin del Vaga nel 1556: «Sì come io bene mi tengo in mente fra i tanti li molti dissegni, che ci rimase di Perino dopo la sua morte, i quali quando io ero in Roma, furono comperati tutti e da una suo figliola venduti il prezzo di scudi cinquantacinque d’oro, i quali li sborsò in mia presenza un mercante mantovano». Infine, ma non da ultimo, per la descrizione di opere, chiese, palazzi, musei di varie città. Citiamo la scomparsa decorazione eseguita dal Pordenone intorno al 1535 per la facciata di Casa di Martin d’Anna a Venezia: «et oltre al queste (figure) se ne vede una sul Canal Grande dipinta da Giovan Antonio da Pordenone dove, fra l’altre cose di meraviglia, vi è un Curzio a cavallo, il quale scurta molto bene et un Mercurio che vola per l’aria, il qual, girando per ogni lato dà gran meraviglia alla gente».
Oltre alle questioni tecniche-pittoriche Armenini si occupa delle virtù che deve avere un pittore. Deve essere, anche, un uomo «docto in buone lettere», come espresso dall’Alberti. E leggere, cito fra gli altri, la «Bibia, Plutarco, Tito Livio, le Trasformazioni di Ovidio o Antonio Apoleio…».