La storia di un detto mal detto che perpetua il mito dello schiarimento della pelle degli africani e sostanzia un universo razzista di ingombrante portata storica. Questo volume ha un sacrosanto trigger warning (un avvertimento cautelativo in prospettiva correctness, rivolto alla sensibilità eventuale del lettore di fronte a contenuti e parole particolari) di quasi due pagine. E ci mancherebbe: perché di questo civilissimo libro dell’attento linguista Federico Faloppa fa paura già il titolo, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista. È infatti un detto a fornirne lo spunto; un detto che ha un cospicuo carotaggio storico e residui di una cupa opinione del colore della pelle degli individui che raggiungono quasi i nostri giorni.
Il mito dello sbiancamento della pelle e delle sue espressioni ha infatti precipitati attuali e stupisce per la varietà di testi nei quali può capitare di incontrarlo: dalla pubblicità ai contemporanei prodotti di cosmesi schiarente, ai dialetti (sistemi linguistici che quando si tratta di perpetuare immagini avvilenti spesso rispondono presente), alle tracce in molte letterature.
La constatazione farcita di amaro «È come sbiancare un etiope» è usata per alludere a tentativi vani di fare qualcosa e spesso si associa agli sforzi inutili che si mettono in atto per spiegare qualcosa a qualcuno che cocciutamente non può o non vuole capire. La sua storia è molto densa, tant’è vero che il detto o sue varianti emergono in testi di varia origine, in numerose lingue del mondo occidentale, all’indirizzo di destinatari differenziati e in parecchi registri testuali. I nomi dei testimoni e degli scritti che ne hanno in un qualche modo veicolato la tradizione sono tanti: dalle raffigurazioni artistiche di riti battesimali destinati ad africani alle interpretazioni della favolistica antica di Esopo, da una discreta tradizione rinascimentale a Erasmo da Rotterdam («Questo detto si adatterà specialmente quando una cosa onesta è verniciata di parole, o quando si loda un uomo ignorante, o si cerca di insegnargli qualcosa»), ai proverbi e, nel tempo e con discreta ovvietà, alle culture coloniali, alle dittature novecentesche, alla cosiddetta e quasi contemporanea «civiltà del sapone» e dell’igiene come stile di vita.
Curiosa questione nella questione riguarda poi il termine stesso di etiope, la ricerca della cui origine apre a piste linguistiche e storiche originali. Dapprima, fin nell’Iliade e nell’Odissea, gli aithíopes erano «alcuni popoli mitici e remoti che vivevano nelle più estreme regioni orientali e occidentali della Terra, l’Etiopia felix prossima a Oceano e cara agli dei». Poi, cinquecento anni prima di Cristo, l’etnico passò a indentificare senza distinzioni tutti «i popoli che vivevano a sud del deserto del Sahara», e cioè gran parte degli africani, e anche quelli che abitavano lo «stimato e potente regno di Kush, l’attuale Sudan».
La storia delle parole e delle espressioni linguistiche è spesso storia tout court. Un fenomeno che promuove la linguistica storica a disciplina privilegiata per imparare molte cose sul mondo e sui suoi destini. I sondaggi e la documentazione di questo ultimo libro di Federico Faloppa sono impressionanti, e decine e decine sono le pagine con le note di approfondimento e di rinvio alle fonti e ad altre possibili letture su questo tema così fondamentale per il vivere civile e responsabile.
Non abbiamo ancora risolto il decennale problema se sia solo il mondo a influenzare il modo di parlare o se al contrario siano il sistema linguistico, le parole, le espressioni, se impropriamente usati, a determinare il nostro modo di vedere le cose, le mentalità e in sostanza la mente dell’uomo. Alcuni di noi ancora non immaginano per esempio quanto possa far male al destinatario di certe squisitezze, ma anche a quelli che gli stanno attorno, l’abuso scherzoso e considerato normale di parole N, «Lavora come un N» o, peggio, «Come un N fa l’amore». Dice James Baldwin nell’esergo a questo libro: «Non tutto ciò che viene affrontato può essere cambiato, ma nulla può essere cambiato finché non viene affrontato».