Con la parziale riapertura delle sale, Emanuele Santoro, orfano del suo Cortile, sta dando fondo all’archivio di readings per colmare il vuoto forzato e i ritardi creati dalle misure dettate dall’emergenza sanitaria. Per sua predilezione – ormai è un alfiere – e per chi ama quel tipo di intrattenimento, la lettura teatrale è certo una nutriente manna. Per chi invece preferisce assistere a spettacoli è ancora tutto da discutere.
Fortuna vuole, almeno per noi, che nel frattempo Santoro è riuscito a infilare un vero e proprio allestimento. Con tutti i crismi e in perfetto stile santoriano (si passi il termine), recentemente ha portato sulla scena del Teatro Foce di Lugano il Diario di un pazzo, un adattamento de Le memorie di un pazzo di Nikolaij Gogol (1809-52). Una scelta coerente con le passioni letterarie dell’attore, regista e scenografo, inclini al classico e a scelte di autori che raccontano e denunciano le stranezze e i drammi contenuti dietro le maschere sociali. Come appunto Gogol con le sue dinamiche della rappresentazione che hanno raggiunto livelli di assoluta grandezza, inserendolo fra i grandi della letteratura russa dell’Ottocento.
Dalla sua straordinaria vena grottesca sono nati personaggi indimenticabili, vittime e fantocci di una società costruita sulla mediocrità per una galleria di meschini impiegatucci schiacciati da un sistema di potere e di gerarchie borghesi che fanno da sfondo ai suoi celebri racconti. Come Il naso, Il cappotto, Le memorie di un pazzo o la commedia Il revisore, conosciuta anche come L’ispettore generale. Per citare i più noti, in una sfilata di antieroi dipinti con un realismo pittorico, in un’atmosfera di pietas di cui non si intravedono i contorni ma che trasudano un incredibile senso di modernità.
È la commovente e surreale psicologia del protagonista, un misero impiegato d’ufficio relegato a far la punta alle matite del capo ma innamorato perso della figlia che sogna di sposare. Ci racconta e vive il suo tormento attraverso le pagine di un diario della mente che lo porta al delirio, come nella lettura di lettere che immagina scritte dal cagnolino della giovane fino a credere di essere diventato re di Spagna per conquistare un rango per impalmare la bella.
È un mondo trasognato di nonsenso, dove la follia fa da cornice a un personaggio che Santoro delinea con un’interpretazione ironica e allusiva, forse fra le sue più riuscite e mature attorno alla drammatica solitudine di una donchisciottesca pazzia. Sulla scena, il letto di contenzione e una piccola scrivania: sbilenchi. L’essenzialità della parola viaggia fino al soffio finale per mandare all’aria le sottili pagine del diario e l’accompagnamento discreto del violino di Claudia Klinzing. Efficace cornice per applausi meritati.