«Ciò che viene messo addosso alle mie parole – le copertine dei miei libri – non è scelta mia. Mi trovo a volte costretta ad accettare copertine che trovo sgradevoli, problematiche, deludenti. Tendo a cedere. Mi dico: lascia perdere, non vale la pena di combattere. Ma poi ne resto afflitta, risentita».
Jhumpa Lahiri è una scrittrice inglese di origini bengalesi; è nota ai lettori italiani per avere scritto, qualche anno fa, un’appassionata cronaca di come sia stata raggiunta con determinata fatica la sua acquisizione della lingua italiana. E per avere scritto quel libro, a riprova dell’esito felice del progetto, non in inglese (che è l’inglese), non in bengalese (che ha qualche centinaio di milioni di parlanti), ma direttamente in italiano. Anche questo ultimo Il vestito dei libri, dedicato alle copertine, ha una storia simile, ma più complicata: il testo della conferenza che ne è lo spunto è stato scritto in italiano, poi il marito dell’autrice l’ha tradotto in inglese per un’edizione con testo a fronte pubblicata una prima volta in Italia. Poi i due testi sono serviti per preparare la prima edizione inglese, che poi l’autrice ha definitivamente tradotto in italiano per fare questo libro. Il meno che si possa dire è che la Lahiri è attenta alle versioni, alle traduzioni, alla lingua italiana.
Le copertine dei libri fanno parte di quello che lo strutturalista francese Gérard Genette chiama il peritesto editoriale; raramente il testo letterario si presenta nudo al proprio lettore: c’è tutto un apparato del libro che quella stessa tradizione chiamò dintorni del testo, che sta sulla soglia e raggruppa la copertina appunto ma poi anche il formato del volume, la strutturazione in collane, sguardie e occhielli, elementi impliciti come la scelta del carattere e dei corpi, titoli, dediche, epigrafi e molto altro. Però, rispetto alla pedanteria della nouvelle critique francese, la Lahiri ci mette molto della dolcissima fantasia che i suoi lettori già conoscono. Per esempio, quando rovescia un po’ i termini dicendo che la copertina, che per noi è una soglia, suona per lei soprattutto come un distacco: entra in scena solo quando un libro è terminato e quindi pronto per nascere in senso stretto. «Mentre per la casa editrice la copertina significa l’arrivo del libro, per me invece significa un addio».
Confessa l’autrice di avere comprato più di un libro (anche? Soprattutto?) per la sua copertina; e noi con lei (per chi non ci crede: certamente Kitchen di Banana Yoshimoto, ma anche Filologia dell’anfibio e altri di Michele Mari, Pao Pao di Pier Vittorio Tondelli, qualche Sellerio per il «francobollo» attaccato al centro, qualche Adelphi per l’austera e misteriosa assenza di differenze nelle sue copertine, di recente Il ragazzo cattivo di Kate Summerscale). La copertina fa parte della serie di cose che acquistiamo acquistando un libro: se è di qualità si acquista qualità, ovviamente, che tra l’altro non si acquista acquistando (sempre che si possa parlare di acquisto) un libro elettronico. La copertina dice qualcosa anche quando è seminuda; come nel caso delle collane, le cui grafiche sono «sobrie e generiche» e si riconoscono immediatamente, come se appartenessero, seppur diverse, a una stessa famiglia.
Certo che dopo una sessantina di pagine a spiegare in lungo e in largo e con passione come deve essere o non deve essere curata e amata la copertina dei libri, non si sa bene che diavolo possa pensare Jhumpa Lahiri al cospetto della copertina di questo libro. Che si chiama Il vestito dei libri e accoglie tutti col disegno anni Ottanta di una specie di doppiopetto aperto sul titolo e fatto di tessuto blu a lisca di pesce; con tanti saluti per l’originalità. Di solito in questo campo l’Editrice Guanda non è mai superficiale: qui, visto il testo, il peritesto avrebbe potuto cercare di «stupirci» un po’ di più.