Verso l’oceano di silenzio

Grande è il vuoto lasciato dall’amato Franco Battiato, potremo però riempirlo con le sue decine di canzoni
/ 24.05.2021
di Simona Sala

Da dove partire? Dove cominciare a raccontare la storia di un uomo nato in quella che era la Sicilia di 76 anni or sono, che negli Anni Sessanta mosse i primi passi in una Milano all’epoca ancora nebbiosa, fatta di locali di cabaret e musica dal vivo, in compagnia di altri giovani poi diventati illustri, come ad esempio Enzo Jannacci, Renato Pozzetto o Giorgio Gaber (che gli suggerì di passare dal nome Francesco a Franco) e armato solo di coraggio e di una creatività straordinaria? A differenza di tutti loro, divenuti ognuno grande a modo suo, Battiato ha avuto per tutta la sua lunga e densa carriera un rapporto particolare e delicato con il pubblico fedele e compatto che l’ha seguito per decenni. Era infatti un artista discreto che affidava alle parole solamente l’indispensabile, pronunciato a mezza voce e con una punta di timidezza, lasciando che la musica facesse il resto.

Quel resto che è una sorta di caleidoscopio in cui si mescolano frammenti di discorsi e di pensiero, considerazioni sulla condizione umana e riflessioni filosofiche, con la creazione, di volta in volta vivida o malinconica, fulgida o misteriosa, di tableaux viventi che riescono, nel magico spazio di una manciata di parole, della durata del tempo di una canzone pop (sì, pop), a regalarci frammenti di mondi, lontani o immaginari. Un giro d’orizzonte del nostro pianeta reale e spirituale forse casuale, sicuramente dettato da percorsi per noi imperscrutabili, perché così personali, ma ben documentati da un ammiratore, che ha creato, su Mappiato.it, una cartina con i luoghi idealmente frequentati dal cantautore siciliano.

Dal misticismo misterioso legato a una certa idea di comunismo (Prospettiva Nevskij, Scalo a Grado, Alexander Platz, Radio Varsavia), volando alto sulle note dei suoi inconfondibili falsetti, con Battiato si sorvola il Nordafrica (Treni per Tozeur), la Turchia, la Bulgaria (Voglio vederti danzare), un Iran quasi mitologico, una Vienna imperiale, per poi atterrare nello squallore della realtà contemporanea sempre uguale a sé stessa di una nazione cui Battiato non perdonava certe pecche e soprattutto gli abusi di potere (Povera patria, «Di gente infame, che non sa cos’è il pudore (...) come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali» – sempre alla politica è da ricondurre quella che fu forse l’unica caduta di stile del Nostro, che qualche anno fa accusò di meretricio la classe politique italiana).

Si corre poi avanti e indietro nel tempo, nel vortice di personaggi incontrati nell’immaginario collettivo e/o realmente esistiti, come le squaw pelle di luna dalle gesta erotiche, le balinesi nei giorni di festa, o le fantastiche operaie cinesi con il loro orgoglio, sulla scia di un’elettronica che stimola la danza, alternata a sonorità che vanno a braccetto con la classica (non è un caso che Battiato si sia esibito anche con la Royal Philharmonic Concert Orchestra di Londra) e avvalendosi perfino dei cori, anche in latino, se necessario.

Nella moltitudine delle canzoni da Battiato scritte e interpretate, oltre a trovare albergo personaggi tra loro in apparenza distanti, come il musicista Giusto Pio (che iniziò il nostro al violino), il filosofo Manlio Sgalambro, che si prestava a interpretare Edith Piaf in scena, la sensuale e potente Alice, Giuni Russo, Milva e, in tempi più recenti, Luca Carboni, vi è anche un’idea di amore dai tratti eterei eppure sensuali, intellettuali e banalmente umani; e questo riverbero frammentario che è la nostra vita, contraddistinta com’è dalla paura di ciò che ci sarà alla fine, e dopo, è stato forse raccontato più splendidamente di chiunque altro – ed è per questo che gli adolescenti ancora lo ascoltano – ne La cura, dove il cantante promette, traboccante d’amore, un rapporto totale, che non solo comprenda cuore, corpo e cervello, ma che coinvolga anche le misteriose forze di spazio e tempo, superabili con la potente arma del più nobile tra i sentimenti.

Battiato, pur raccontando di non avere mai avuto un’anima gemella nella vita privata, nei suoi infiniti pellegrinaggi di ricerca nei meandri della musica e della parola, e soprattutto nella seconda fase della propria carriera, ha battuto spesso i percorsi dell’amore. E per farlo non si è affidato solo a un personale estro consolidato dove musica e testo si fondono per dare risultati di volta in volta diversi, che spaziano dall’ironia alla velata denuncia, passando attraverso una certa rêverie compiaciuta (sul «Foglio» definita «sublime cazzeggio»), ma indugiando per ben tre album nelle rivisitazioni di pezzi provenienti nell’immenso bacino del cantautorato, italiano e non. Battiato non temeva le lingue straniere e tantomeno il confronto con grandi nomi come Mick Jagger, Charles Baudelaire, Otis Redding o Gilbert Bécaud, sempre sotto lo sguardo vigile di quel Inneres Auge che è anche titolo di una sua canzone.