Vero? No, veramente falso

Falsari che diventano artisti di fama, falsi che diventano opere d’arte: da sempre autentico e falso sono facce della stessa medaglia
/ 14.01.2019
di Emanuela Burgazzoli

Orson Welles aveva cominciato la sua carriera con un falso (radiofonico) clamoroso nel 1938, facendo credere al pubblico americano a uno sbarco degli alieni. Molti anni dopo, nel film testamento F for Fake il regista di Quarto potere torna a riflettere sulla natura del falso nell’arte, prendendo spunto anche dalla vita rocambolesca del celebre falsario ungherese Elmyr de Hory, nel film interprete di se stesso.

Il Novecento ha visto altri celebri falsari riuscire nell’impresa di ingannare critici, pubblico e musei, come Han van Meegeren, specializzato in arte antica olandese, in particolare nella riproduzione di quadri «à la manière de» Vermeer; la sua Cena in Emmaus, è stato dichiarato autentico da autorevoli esperti, venduto e poi acquisito dal Boijmans Museum, che oggi però lo espone non nella sezione dedicata all’arte del Seicento, bensì fra i maestri della pittura contemporanea.

In fondo le sue opere non hanno mai perso di valore, passando dallo statuto di autentici Vermeer a falsi Vermeer e infine a quello di autentici van Meegeren, diventando di fatto anche documenti storici. Il falsario olandese era talmente abile che per salvarsi dall’accusa di alto tradimento nel 1945 esegue una falsificazione in tempo reale in tribunale; poco prima di morire il falsario di Vermeer conosce quindi la fama, riuscendo a prendersi la rivincita anche sui critici che avevano disprezzato i suoi esordi da pittore.

Analoga voglia di riscatto nei confronti di un’arte contemporanea che nega il bello e altrettanta leggendaria maestria nel riprodurre «falsi plausibili», caratterizzano Wolfgang (Fischer) Beltracchi. Tradito da un tubetto di bianco, il falsario tedesco dopo aver scontato una pena di sei anni di reclusione per frode in Germania, si è recentemente trasferito in Svizzera, dove può contare su una affezionata e facoltosa clientela alla quale vendere le sue opere, che ora portano la sua firma, e non più quella dei grandi maestri della modernità – da Ferdinand Léger a Heinrich Campendonk.

Un passato da restauratore, Beltracchi è stato talmente abile da piazzare centinaia di dipinti anche in musei e case d’aste e da scoraggiare periti e critici dall’autenticare; persino un collezionista ingannato ha chiesto di riavere indietro il suo «falso» Max Ernst. Ora Beltracchi vive una nuova vita, da artista riconosciuto, invitato a conferenze universitarie e corteggiato da registi e galleristi («DU» gli ha appena dedicato un numero). In una recente intervista – con malcelato orgoglio – dichiara di essere decisamente più autentico di molti artisti contemporanei, «loro sì, autentiche “fabbriche” in cui conta solo il marchio».

Ma per la natura concettuale e la connotazione effimera dei materiali l’arte contemporanea ha visto modificarsi radicalmente il concetto di autorialità; se da una parte la «firma» si è disgregata, dall’altra è diventata un’ossessione. Ossessione anche retroattiva, se a un certo punto ci si chiede quanta percentuale di Velázquez ci sia in un Velázquez. Certo è che con la nascita del mercato dell’arte alla fine dell’Ottocento acquisisce fondamentale importanza l’attribuzione e la certificazione dell’opera. Le cifre da record battute all’asta negli ultimi anni per dipinti antichi, ma anche contemporanei, dimostrano quanto si sia spinto avanti il processo di mercificazione dell’opera d’arte (e si sa anche quanto la spettacolarizzazione e la sovraesposizione mediatica possano influenzare l’attribuzione, come dimostra la tormentata storia di quello che è considerato l’ultimo Leonardo, il Salvator mundi).

Un’ossessione tutta moderna se pensiamo che il Cupido dormiente di Michelangelo, un’imitazione di arte antica, aveva attirato infine l’attenzione di Isabella d’Este, determinata a possedere quel bellissimo falso dello scultore vivente più quotato. Con un atteggiamento forse poco romantico, Isabella aveva già capito, molto in anticipo sui tempi del digitale e dei facsmili di capolavori ad alta definizione, che il fascino dell’aura dell’opera originale che conserva le tracce del tempo e dell’autore, poco aveva a che fare con il valore estetico dell’opera stessa.

Quanto il concetto di autorialità (e di originale) possa essere effimero lo dimostra la vicenda giudiziaria che ha opposto Dieter Roth a un suo gallerista; il primo accusato di aver rimosso la firma con un intervento di «manutenzione» delle sue celebri «Inselbilder», il secondo riconosciuto colpevole di aver completato l’opera con aggiunte (arbitrarie) di gesso.

Scoprire che la Gioconda esposta al Louvre non è l’originale dipinto da Leonardo dirotterebbe le interminabili folle di turisti – che sembrano pellegrini in adorazione davanti alle reliquie di un santo – verso altre opere d’arte? Forse sì, o forse no. Illusione e realtà, autentico e falso, copia e originale più che poli opposti, sono particelle in continuo movimento, pronte ad attrarsi o a respingersi con intensità variabile: forse è una delle verità racchiuse già in quell’ironico ed enigmatico sorriso migliaia di volte replicato e citato negli ultimi cinquecento anni.