È probabile che Giovanni Verga non apprezzerebbe molto gli omaggi di rito nel centenario della sua scomparsa; lui che all’amico fraterno e collega scrittore Luigi Capuana confidò di auspicare per l’avvenire dell’arte una «suprema noncuranza per l’artista»: «si deve arrivare a sopprimere il nome dell’artista dal piedistallo della sua opera, quando questa vive da sé», gli scriveva nel febbraio del 1881.
Era l’anno de I Malavoglia, il suo capolavoro, che nella medesima lettera affidava idealmente alle attenzioni di quel lettore privilegiato e di ogni altro lettore, con il turbamento di un autore consapevole di aver esaurito il proprio compito e disposto a ritrarsi, come un padre di fronte ai figli quando è tempo che divengano autonomi: «Non ti nascondo», concludeva, «che sono inquieto pel come saranno presi, questi disgraziati Malavoglia; e si ha un bel fare il bravo, ma non si possono abbandonare in mezzo alla strada questi benedetti figliuoli, senza sentirsi commuovere le viscere paterne».
Da principio avrebbero «fatto fiasco, fiasco pieno e completo», quei disgraziati Malavoglia: toccava ammetterlo, di lì ad appena due mesi, col solito Capuana. Eppure, Verga difendeva il proprio romanzo e si mostrava non più disposto a guadagnare la ribalta assecondando le mode letterarie del momento, o a garantirsi il favore collettivo coll’«ammannire i manicaretti che piacciono al pubblico per poter poi ridergli in faccia»: «Il peggio è che io non sono convinto del fiasco, e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto».
La sicurezza (non immune da alterigia) gli derivava forse dalla nascita aristocratica, tra i latifondi del catanese, sul finire dell’estate del 1840. Con la stessa caparbietà aveva da sempre perseguito la propria vocazione letteraria, fin dagli esperimenti di scrittura giovanili, in una Sicilia che andava d’un tratto scoprendosi provincia del novello Regno d’Italia: romanzi storici o sentimentali, i primi di una nutrita serie, che riecheggiavano già nel titolo le tendenze dominanti dell’epoca (Amore e patria, del 1857, poi I carbonari della montagna, edito a spese dell’autore tra 1861 e 1862).
La «smania di scrivere» lo aveva quindi condotto, nella seconda metà degli anni Sessanta, a Firenze, allora capitale linguistica e politica, a scrollare a propria volta dai panni di romanziere un po’ della polvere della periferia. Al concludersi del decennio, gli esiti principali sarebbero stati la lacrimevole Storia di una capinera (pubblicata a puntate da un editore di prim’ordine come Treves) e lo slancio necessario al trasferimento a Milano.
Soltanto nella grande città, nel magma delle sperimentazioni d’avanguardia, accanto ai giovani Scapigliati e tra gli ingranaggi dell’editoria più coraggiosa ed esigente, aveva infine scoperto la potenza singolare della propria arte. «Tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti», assicurava a Capuana nella primavera del 1874, spronandolo a raggiungerlo; sebbene, paradossalmente, la maggior novità comunicata all’amico rimasto a godere «la quiete tranquilla della nostra Sicilia» fosse la recente composizione di «una novella, uno schizzo di costumi siciliani». La rivoluzione si compiva nella misura breve del bozzetto di Nedda, che introduceva nell’orizzonte desolato, umile e fiero di lì a poco popolato dai personaggi dei racconti di Vita dei campi e del primitivo abbozzo romanzesco intitolato a Padron ’Ntoni.
Entro la svolta degli anni Ottanta si era ormai definito anche il progetto ambizioso del Ciclo dei vinti, vagheggiato come una successione di ben cinque romanzi. Nel turbine montante della cultura idealista-positivista, foriera di sorti magnifiche o almeno progressive, Verga aveva scelto di ripartire dalla lezione delle «gente meccaniche» manzoniane e di guardare alle propaggini naturaliste del realismo europeo, votandosi a ritrarre il destino miserando dei «deboli che restano per via», sacrificati alle dinamiche implacabili del progresso collettivo (secondo la prefazione-manifesto ai Malavoglia): la nidiata della casa del Nespolo e i popolani di Aci Trezza, il manovale arricchito e offeso mastro-don Gesualdo, ma anche i più altolocati protagonisti de La Duchessa de Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso.
L’ispirazione più vivace gli venne dal mare e da chi in esso trovava sostentamento e morte (non a caso Marea fu il nome carezzato in origine per l’intero ciclo), stimolandolo a mettere in scena «quei pescatori e coglierli vivi come Dio li ha fatti» (così in un appunto di lavoro trasmesso a Capuana). La volontà di dar corpo e voce alla comunità umana dei Malavoglia, «un tempo […] numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza», non si espresse tuttavia in una nuova immersione sentimentale o in un ingenuo tentativo di restituzione in presa diretta.
Ben sapeva, Verga, che, per quanto un autore voglia celarsi e lasciar agire le proprie creature, la sua visione continua a dominare la scena; che l’impressione di immediatezza presuppone uno sforzo di mediazione ancor maggiore da parte del narratore, una più intensa ricerca attorno ai personaggi, un lavorìo più minuto sulle loro cadenze espressive e linguistiche: «forse non sarà male […] che io li consideri con una certa distanza in mezzo all’attività di una città come Milano» – proseguiva ad annotare il romanziere, a proposito dei suoi pescatori – «Non ti pare che per noi l’aspetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? e che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi?».
Forse anche per questo avrebbe incontrato maggior difficoltà a trovare la giusta lontananza prospettica rispetto alla società più composita e stratificata entro cui compie la propria ascesa Gesualdo Motta: l’uomo di fatica divenuto padrone, assurto al rango della borghesia e imparentato per matrimonio con la nobiltà feudale, pure rimasto per tutti nella condizione ambigua di mastro-don Gesualdo. Ne conseguì in ogni caso una grande opera (edita a puntate nel 1888, e l’anno successivo in volume, in versione riveduta e corretta), ma meno originale e nelle scene corali ancora significativamente debitrice del modello manzoniano. Forse per le stesse ragioni non gli riuscì di compiere gli altri romanzi del Ciclo dei vinti, che non gli avrebbero consentito alcun distacco dai circoli influenti delle realtà cittadine in cui si trovava invischiato. Alla lacuna avrebbe in qualche modo sopperito l’affresco sociale e politico de I Viceré (1894) di Federico De Roberto, prezioso sodale degli ultimi anni, che Verga tornò a trascorrere in Sicilia, ripiegato in una solitudine poco operosa.
La sera del 2 settembre 1920, al Teatro Bellini di Catania, toccò a Luigi Pirandello pronunciare il discorso celebrativo per l’ottantesimo compleanno di Verga. E in quella circostanza di festa, lo scrittore agrigentino non esitò a lamentare l’ormai «mediocre risonanza» dell’anziano maestro. L’«asciutta magrezza d’ossatura» e la «povertà nuda di parole e di cose» della prosa verghiana parevano aver perso attrattiva in una stagione abbagliata dal miraggio dell’arte consacrata ad immortalare se stessa e le avventure edonistiche dei propri cantori: lo «stile di parole» aveva trionfato sullo «stile di cose».
Ma Pirandello era lì a cogliere l’occasione di ribadire il valore intatto dell’opera di Giovanni Verga, quella sua «primitività quasi omerica, ma su cui incombe quasi un senso della fatalità dell’antica tragedia, se la rovina di uno è la rovina di tutti». «Oggi più che mai è nostra questa concezione dei vinti», vantava con coraggio, in un contesto ben poco incline alle ammissioni di debolezza o sconfitta.
L’anniversario presente potrebbe essere una buona opportunità per chiederci quanto ancora sia nostra.