Originariamente interpretato dai diplomandi della Scuola di Teatro del Piccolo di Milano diretta da Carmelo Rifici, Doppio sogno è attualmente in scena al Teatro Studio Melato con alcuni degli interpreti di allora, oggi attori professionisti. È necessario tener conto della sua originaria natura di spettacolo dell’ultimo corso di studi per valutare l’adattamento della bellissima novella di Arthur Schnitzler intitolata in italiano Doppio sogno (in tedesco: Traumnovelle): un adattamento che il giovane drammaturgo Riccardo Favaro ha elaborato con una cura che meriterebbe più attenzione di quella che potrò dedicargli nello spazio a mia disposizione.
Doppio sogno è una novella in terza persona che fa abbondantemente uso del discorso indiretto libero, cioè del procedimento con cui un narratore, pur restando in apparenza estraneo ai personaggi, ne assume il punto di vista e adottandone il linguaggio ne restituisce mimeticamente i pensieri, le emozioni, i sentimenti. Tema di fondo del racconto è l’adulterio (l’antitesi fedeltà-tradimento all’interno di una giovane coppia formata dal medico Fridolin e da sua moglie Albertine). L’adulterio è notoriamente un tema «ossessivo» di buona parte della narrativa e della drammaturgia ottocentesca e primonovecentesca. La novella di Schnitzler racconta però di un adulterio fantasticato da entrambi i coniugi, più volte sfiorato dal marito, ma consumato soltanto dalla moglie, in sogno.
All’inizio, lui e lei rievocano le tentazioni di tradimento vissute durante il ballo mascherato della sera prima e nel corso di una recente vacanza in Danimarca. Improvvisamente, per motivi professionali, Fridolin deve uscire di casa. Ha così inizio un viaggio notturno che lo condurrà fino alla periferia di Vienna: una piccola odissea medio-borghese durante la quale conoscerà più volte la tentazione dell’adulterio. Quando rientra, Albertine gli racconta distesamente un sogno che a lui sembra ben più avventuroso e sconvolgente del viaggio da cui è appena tornato.
Poche ore dopo, Fridolin è di nuovo fuori casa: il suo viaggio diurno è motivato soprattutto dalla volontà di rivisitare alcuni luoghi e di chiarire alcune circostanze preoccupanti di quello notturno. Al suo ritorno (è già buio) racconta alla moglie le esperienze della notte precedente. La sensazione di reciproca trasparenza e di scampato pericolo indotta dal racconto del sogno di Albertine e dalla confessione di Fridolin sembra colmare la distanza che da qualche tempo si è creata fra loro. Durerà a lungo? Albertine suggerisce di non ipotecare il futuro.
L’articolazione spazio-temporale della novella di Schnitzler è nitidissima. Ma la tessitura della narrazione (coi suoi parallelismi, le analogie, le contrapposizioni, le specularità, i passaggi dalla terza persona al discorso indiretto libero) è straordinariamente complessa. Insomma, una vera gatta da pelare per chi voglia approntare un adattamento da affidare all’interpretazione di un consistente gruppo di diplomandi. La decisione più rilevante presa da Riccardo Favaro è stata quella di moltiplicare la coppia protagonista e di raddoppiare alcuni personaggi.
Nello spettacolo (prodotto dal Piccolo di Milano e inscenato da Carmelo Rifici) abbiamo così sette Albertine, cinque Fridolin, due Marianne, due Mizzi, due Nachtigall e due «donne della villa». Usando il passato remoto e l’imperfetto indicativo, le attrici e gli attori che li interpretano (e che interpretano anche altri personaggi) a volte parlano in terza persona come narratori realisticamente obiettivi e a volte si raccontano in prima persona come autori di un’autofiction. Altre volte invece dialogano come personaggi ritratti dal vivo. Tutto ciò ingenera una certa confusione nello spettatore e rende il testo di Favaro meno coinvolgente del testo di Schnitzler.
Dovrei parlare di molte altre cose. Per esempio della didascalica amplificazione del dialogo tra tra Mizzi e Fridolin; dell’errore di avere chiassosamente animato i costumi di Gibiser; di avere quasi annullato il gotico, simbolico e indimenticabile viaggio di Fridolin verso la villa extraurbana; della forse inevitabile goffaggine della scena orgiastica (che è venuta male anche a Kubrick); del troppo mutilato racconto del sogno di Albertine; di alcune raggelanti e poco convincenti considerazioni metateatrali su personaggi e racconto. Mi resta solo lo spazio per dire che gli ex diplomandi – guidati con accortezza da Rifici – dimostrano di aver meritato il loro diploma.