Sabato canterà al LAC, tappa elvetica della tournée che lo sta portando in mezza Italia. Con la chitarra e quella sua voce roca dove ti sembra di ascoltare le rughe scavate dal tempo e dal vento; e soprattutto con le storie che riemergono da un passato popolare e contadino e che oggi appassionano al dialetto non solo azzimati nostalgici ma tanti, tantissimi giovani le cui frequentazioni musicali passano normalmente da smartphone e playlist.
È il miracolo di Davide Van De Sfroos, al secolo Bernasconi, che ha conquistato l’Italia tutta, isole comprese, a colpi di accordi e dialetto laghée, la lingua di quel fazzoletto di terra attorno a Tremezzina che si specchia nel Lago di Como. «È un successo che sorprende anche me; non volevo fare il musicista, a me interessava raccontare storie, soprattutto le storie che avevo ascoltato da piccolo. Alle medie ero il Davide che racconta storie, crescendo ho capito che se avessi messo le storie in un libro non se le sarebbe filate nessuno, forse la musica poteva essere un canale più efficace». Lo è stato. La Ninna nanna del contrabbandiere, Sciur Capitan, Il figlio di Guglielmo Tell sono diventati dei successi clamorosi, assieme a tanti altri titoli, da Yanez a 40 pass.
Sembrava un azzardo la scelta del dialetto: «Il mio punto di partenza era il desiderio di raccontare e siccome le storie appartenevano a cent’anni fa le volevo narrare “in lingua originale”: il dialetto mi sembrava più naturale». Van De Sfroos ha 53 anni, non 80: «Infatti ho incontrato il mondo dei contrabbandieri e dei contadini quando ne avevo 5-6: zie e nonne mi portavano nelle case dei loro amici e loro, quando vedevano un bimbetto che invece di uscire a giocare a pallone stava lì a sentirli, aprivano gli armadi della memoria e non smettevano più di raccontare. E io di ascoltare. Tutte le mie canzoni ripetono storie intere o mettono insieme parole sentite, cose e persone viste. Non ho mai conosciuto la Figlia del capitano, ma ho visto più ragazze sposarsi con “quello là” contro il parere dei genitori e degli amici perché sembrava uno scapestrato e chissà come va a finire; e invece sono ancora insieme e si vogliono bene, mentre certi matrimoni perfetti sono finiti dopo mesi».
Non poteva aver sentito raccontare del figlio di Guglielmo Tell preoccupato perché papà, prima di tirare la freccia («non si potrebbe usare un melone?» chiede), «süta a bef bira», e poi un po’ imbronciato perché nessuno si ricorda il suo nome, solo quello di papà. «Ogni tanto è bello giocare con la fantasia. Ad esempio Sugamara mi è venuta in mente pensando a un uomo incredibile che veniva in paese, faceva la doccia in mezzo alla strada e dormiva in una chiesa sconsacrata, poi scompariva come era arrivato; non ci potevi parlare, non era mai abbastanza lucido per rispondere; lo guardavo e ho voluto immaginare quel che a occhio non si vedeva».
È stata la mamma a raccontargli del contrabbandiere cui ha dedicato la Ninna nanna: «Da piccola andava da un’amica il cui padre usciva vestito in modo strano quando ormai era notte; sua moglie si affacciava alla finestra e lo accompagnava con una preghiera. Mi è venuto da pensare alla moglie del finanziere che in un’altra casa salutava il marito con lo stesso sguardo e probabilmente la stessa preghiera».
Non è raro nelle canzoni l’accenno a una preghiera: «Oggi sembra qualcosa di astratto, ma quando entro nelle chiesette di montagna e vedo gli inginocchiatoi di legno levigati dai fedeli che si sono piegati su di essi, capisco che la preghiera lascia il segno, seppur silenziosamente e lentamente. È il nostro modo di anelare, quando non siamo sepolti da troppe cose, a quell’infinito di cui siamo parte, è il riconoscere il mistero della realtà. Per gli antichi la luce era un dono degli dei, poi la scienza ha scoperto i fotoni; ma io oggi, pur sapendo dei fotoni, non posso non vedere la luce ancora come un miracolo. Ed è un miracolo il fatto che io ci sia e in questo momento stia parlando».