Ci sono romanzi così avvincenti che li leggi in un soffio. E ci sono opere in cui fatichi ad entrare, perché hanno più piani e diverse porte d’accesso, ma alla fine ti lasciano dentro molte immagini, e da pensare. L’opera letteraria del rumeno Mircea Carterescu appartiene alla seconda e più rara categoria di romanzi. E Solenoide, la sua ultima fatica, tradotta magistralmente da Bruno Mazzoni e pubblicata dal Saggiatore è il suo capolavoro.
È la storia a tratti triste, a volte grottesca, di un giovane poeta di Bucarest che, già ai tempi dell’università compone il suo poema-assoluto, nei cui versi ha spremuto lo scibile umano, o quasi. Ma il classico Prof universitario, e i suoi studentelli, gli rifiutano il poema, lo deridono, e da quella fatidica serata lui passa un’esistenza grama e solitaria ai margini di Bucarest. Si tiene a galla insegnando letteratura in una improbabilissima scuola di periferia. E come un novello Stephen Dedalus di Joyce abita una casa-torre, una navicella spaziale stregata che solo a lui poteva capitare in affitto.
Sopra il letto il nostro sfigatissimo poeta-scrittore (che appunta febbrilmente le sue memorie, sapendo di non pubblicarle mai) ha scoperto un pulsante che, in azione, consente a lui e alla sua bella – insegnante di matematica nella stessa sgangherata scuola – di lievitare amabilmente, scivolando dall’atto erotico al mondo dei sogni. «Il protagonista di Solenoide» ci dice Mircea Cartarescu sorridendo, «è ovviamente un alter ego, e il mio è un romanzo di formazione in cui si tratta di un percorso per conoscere se stessi». E dopo un attimo di riflessione Cartarescu aggiunge: «abbiamo conquistato il mondo in tutti i suoi dettagli ed angoli, ma stiamo perdendo la cosa più importante: la conoscenza di noi stessi». Ecco perché questo ispirato romanzo di 937 pagine appartiene alla seconda categoria di testi, a quella letteratura «surreale» in cui conoscenza personale, le leggi della fisica, le formule della matematica, le più strane figure della storia e politica (non solo rumena) e la passione per il mondo degli insetti (dei più mostruosi parassiti in specie) si intrecciano in un caleidoscopico mix in ogni capitolo.
«La prima radice del surrealismo» ci spiega Cartarescu che abbiamo incontrato a fine agosto al festival «Moby Dick» in Toscana, «sono i romantici tedeschi come Novalis, Hoffmann e Tieck che ci hanno spalancato le vie del sogno». E Cartarescu è uno che ai trip onirici, alle visioni ed allucinazioni ci tiene moltissimo. «Scrivendo mi sono appropriato anche dei sogni di mia madre», ci confida, «ma l’altra radice del surrealismo è la psicoanalisi. Mentre l’artista che sento più vicino è chiaramente Giorgio De Chirico». Su questa immensa miniera «surrealista» però nelle sue pagine si innestano le biografie e ricerche di scienziati di varie discipline.
In Solenoide ad esempio si ricostruisce l’intricato mondo matematico di Charles Howard Hinton, uno dei geni inglesi della logica moderna (le cui teorie dell’Iper-cubo portano, fra l’altro, al famoso giocattolino del «cubo magico»). «Un terzo del mio tempo lo passo a leggere letteratura, spiega Cartarescu, poi leggo di tutto. È un peccato che oggi scienza e letteratura abbiano divorziato. Un autore per me importante è ad esempio il fisico Carlo Rovelli». Ma al di là dell’amore per le scienze (dalla logica all’entomologia) c’è un punto su cui Cartarescu ritorna in ogni discorso e romanzo: «la letteratura, come ricorda Salinger, non è solo una professione come altre, ma un atto di fede, una religione. Una visione del mondo che, nella sua complessità, ti consente di vedere fra le crepe delle altre forme di sapere. Sì, letteratura è poesia, e la poesia è la vetta della conoscenza».
Da anni si vocifera di un premio Nobel per Cartarescu, a cui sono già stati conferiti il Thomas-Mann-Preis, il premio von Rezzori o quello dello Stato austriaco per la letteratura. Sarebbe un Nobel meritato se pensiamo ai decenni di umiliazioni che lui e i suoi genitori hanno vissuto a Bucarest, la città che ama perché è la fonte (inquinata) della sua poesia, ma che in certo senso odia. «È la città più triste e melanconica del mondo, nata» ripete «come capitale in rovina o delle rovine». Tanto che nelle ultime pagine di Solenoide la vediamo tutta intera questa benedetta/maledetta Bucarest spiccare il volo e sparire dalla Terra. È una delle funzioni a cui i canali dei Solenoidi sparsi nella città servivano, oltre a far lievitare l’anima del povero poeta.
«Ai tempi della dittatura del corrottissimo Ceaușescu, dicevamo di vivere nel regime delle 3F» ricorda lui «la Fame, il Freddo e la Fifa, la paura delle denunce e repressioni dell’apparato dei servizi». Carterescu se li ricorda ancora i giorni della rivoluzione rumena dell’89 in cui lui, come tutti i bucarestini erano in piazza, nonostante il freddo, la fame e la fifa, a gridare «Libertà». «Per questo sono un europeista convinto» riassume lui «e penso che la data dell’ingresso della Romania nell’Unione europea dovrebbe diventare il giorno di festa nazionale per noi rumeni».
All’epoca del crollo del Muro di Berlino, un po’ tutti eravamo arrivati a sognare «la fine della Storia», per dirla con il politologo americano Francis Fukuyama, e l’inizio di un’era di democrazie globali. «Oggi la situazione si è capovolta rispetto a 30 anni fa» spiega Carterescu, «siamo accerchiati da Stati illiberali in Oriente e da Paesi antidemocratici nell’Europa dell’Est. La gente ha di nuovo paura, paura del futuro, e si aggrappa di nuovo alla ideologia dell’Uomo forte». Anche per queste derive ultranazionaliste e sovraniste, il poeta di Solenoide ritorna con la memoria alle vili repressioni subite nel regime asfittico di Ceaușescu.
«Per quanto totalitaria ogni dittatura» – conclude – «ha un punto vulnerabile e se lo tocchi tutto il suo castello di repressioni viene giù. È l’autostima, l’amore della propria dignità il punto debole di ogni regime». E in fondo è a questa scintilla di libertà interna che la grande letteratura, e la sua poesia, mirano in ogni pagina.