Una voce ancora contro il sistema

Il sempre più prolifico Neil Young torna alla ribalta con un disco che conferma una volta di più le sue visioni politiche e l’impegno civile
/ 27.02.2017
di Benedicta Froelich

Prima di cominciare questa recensione, chi scrive deve ammettere di aver avuto un attimo di smarrimento nel rendersi conto della recente pubblicazione di un nuovo, ennesimo album dell’iperprolifico Neil Young – un artista che, negli ultimi anni, si sta dimostrando come forse il più produttivo tra i leggendari nomi del rock tuttora in attività; talmente produttivo, in effetti, che questo ultimo Peace Trail giunge nei negozi a meno di sei mesi di distanza dal precedente album dal vivo Earth. E bisogna sottolineare come ciò che più colpisce al primo ascolto di quest’opera sia la struggente semplicità, a tratti perfino eccessiva, con cui Young ne ha concepito arrangiamenti e incisione, allo scopo di farne un vero e proprio album folk dei tempi andati, che deve qualcosa anche ai primi dischi di Bob Dylan e alla generazione dei «menestrelli di ritorno» dei primi anni ’60.

Ciò non significa, tuttavia, che il peculiare «marchio di fabbrica» dell’artista non brilli lungo l’intero disco: ecco quindi che la title track Peace Trail è in tutto e per tutto un brano nel più puro stile «à la Young», contraddistinto da vocals suggestivi e ritmo lento e meditativo, nonché dagli immancabili e inconfondibili assoli di chitarra elettrica, eseguiti dal cantautore con gusto da vero countryman: il risultato è un singolo di lancio dal sapore autentico, tinto di gusto bluegrass ma condito dall’inconfondibile maestria e dal consumato brio del maestro canadese. In effetti, l’intera tracklist suona come un sentito tributo a quella musica tradizionale americana che tanto ha influenzato Neil nei suoi anni formativi, e che qui rivive anche nei rabbiosi incisi di armonica: così, Can’t Stop Workin’ è un blues acido e sporco, degno del miglior «southern style», mentre il più pacato e rifinito Indian Givers è dedicato alle recenti lotte dei nativi americani contro la costruzione della famigerata pipeline che dovrebbe attraversare (e inquinare per sempre) le loro terre sacre e riserve d’acqua in South Dakota.

La cosa inizia a farsi forse un po’ noiosa con Texas Rangers, che, pur seguendo la medesima direzione dei pezzi sopraccitati, non riesce a coinvolgere l’ascoltatore allo stesso modo; e qualcosa di simile si può dire anche di John Oaks, una sorta di ballata che richiama i talking blues di antica memoria, nell’accezione tipica del folk revival made in USA, sbocciato a cavallo tra gli anni ’50 e i ’60. E qui sta il problema, perché sia John Oaks – un brano di critica sociale che celebra le imprese di un contadino ribelle – che il similarmente «impegnato» My Pledge suonano probabilmente un po’ troppo pedanti per l’ascoltatore medio, in quanto talmente radicati nella tradizione roots angloamericana da apparire quasi didattici.

Risulta forse più efficace una traccia caustica e splendidamente cinica quale Terrorist Suicide Hang Gliders, nel quale Young si fa beffe della paranoia americana nei confronti dei cittadini di fede islamica. Eppure, l’artista appare perfettamente a suo agio anche con un lento classico e seducente come Show Me, che fa brillare ancora una volta la sua vena romantica e intimista; qualcosa che, in chiave più visionaria e graffiante, risplende pure nell’irresistibile Glass Accident, in cui l’apparentemente banale inconveniente di un vetro in frantumi sul pavimento diventa arguta metafora per un disagio ben più grave e profondo. Sulla stessa linea, un esperimento singolare quale l’ironico e scanzonato My New Robot conferma come la vena caustica e surreale del cantautore sia ben lungi dall’esaurirsi.

Simili sfumature stilistiche dimostrano una volta di più come Peace Trail sembri costituire, per Neil Young, una sorta di «ritorno alle origini»: seppur di matrice meno dichiaratamente politica rispetto a The Monsanto Years (2015), quest’album si colloca a pieno titolo nella tradizione secolare della canzone di protesta angloamericana – nello specifico, sulla scia delle ballate senza tempo del grande maestro Woody Guthrie, alle quali Neil si rifà palesemente per gran parte del disco. In tal senso, è interessante notare che, forse proprio per questo, in Peace Trail Young abbandona la sua ultima band, i Promise of the Real, per affidarsi completamente ad appena due musicisti – il sempre eccellente Jim Keltner (batteria) e il bassista Paul Bushnell.

Certo, tutto ciò significa anche che questo non è un album per tutti: gli ascoltatori che non hanno familiarità con i cicli della «topical song» troveranno difficile appassionarsi a simili brani, destinati a un ascolto particolarmente attento alle liriche, e non certo all’impiego come semplice musica di sottofondo. Eppure, coloro con una soglia d’attenzione più alta e una maggiore capacità di analisi della forma canzone non potranno non apprezzare la dedizione mostrata da Neil Young nel concepire e rifinire questo disco, che suona come un concept album di tempi più felici.