Una tribù in tacchi a spillo

L’antropologa Wednesday Martin studia con ironia il complesso ecosistema delle mamme dell’Upper East Side
/ 20.02.2017
di Laura Di Corcia

Quanta distanza intercorre fra la 5. Avenue e la giungla? Fra una madre che porta a spasso il suo piccolo in carrozzina su un tacco 12, con i capelli perfettamente in piega e una borsa da settemila dollari sulla spalla, e una mamma scimpanzé? Nel suo libro dissacrante, divertente, intelligente, brillante e originale Wednesday Martin, antropologa nata in una città di provincia e poi trasferitasi nella Grande Mela per questioni di opportunità lavorative, ci racconta con sorprendente onestà del suo lento e graduale adattamento alle logiche ferree nel complesso ecosistema delle madri dell’Upper East Side, uno dei quartieri più ricchi di Manhattan. 

Tutto inizia dalla gravidanza e dagli interrogativi che la stessa pone a chi la sta attraversando: dove far crescere mio figlio? Per avvicinarsi ai suoceri e per fare in modo che il nascituro abbia accesso alle migliori scuole pubbliche, Wednesday e il marito decidono di andare a vivere in una delle zone più esclusive della città, a pochi passi da Central Park. In questo modo la studiosa si trova calata in un contesto nuovo, dominato da logiche ferree e in un certo senso spietate: leggendo Nella giungla di Park Avenue (Bookme) scopriamo che prendere appartamento lì richiede una serie di riti e passaggi complessi: che ci sono palazzi, in quel quartiere, dove i condomini pretendono di avere accesso alle informazioni più private della nuova famiglia in arrivo, compreso il conto corrente. Che iscrivere il proprio figlio alla scuola materna non è semplice, perché le scuole sono poche, i bambini – anche se privilegiati – tanti, e tutte le mamme tentano di assicurare alla propria prole un percorso scolastico privilegiato partendo proprio dall’asilo, perché sarà la direttrice della materna a raccomandare il bambino a quella delle scuole elementari e così via fino all’Università, lungo un iter che va previsto sin dall’inizio, stabilendo ove possibile anche il mese di nascita, da non lasciare al caso perché quelli nati nella seconda metà dell’anno partono già svantaggiati. Che le altre mamme, sin dall’inizio, ti ignoreranno perché non hanno nessuna voglia di aprirti le porte del cerchio magico del privilegio. Che in fondo questa situazione privilegiata è frutto di continue strategie e di una ricerca esasperante della perfezione fisica, visto che gli uomini sono pochi e le donne – bellissime – molte. 

In fondo, guardandole veramente, queste donne sposate ai più grandi magnati dell’industria e della finanza fanno pena. Spesso, come racconta la studiosa, sono tradite dai mariti; non hanno una loro entrata fissa, sono dipendenti dall’uomo in tutto e per tutto. Le loro identità, fragili, sono attaccate a doppio filo al loro ruolo di mogli e madri perfette. Stordite dall’alcol e dagli ansiolitici, estenuate da ore di palestra e da diete per mantenere il fisico asciuttissimo anche dopo due, tre gravidanze, queste donne non sono lontane dalle mamme scimpanzé, che nella giungla lottano con tutte le forze per scalare la gerarchia e assicurare una stabilità a sé stesse e ai propri cuccioli. 

Per essere ammessi nel quartiere più ricco di una delle città più ricche al mondo, bisogna vivere così, in bilico fra un botox e una crisi di nervi, con i tacchi a spillo otto ore al giorno (tanto c’è il dottore che fa la punturina per non sentire male), sudando in palestra, sempre truccate e ben pettinate, attente ad ogni minimo dettaglio. La pena? L’esclusione sociale. La studiosa è molto brava a fare un’analisi antropologica del gruppo, scoprendone sulla propria pelle le regole, le brutture e alla fine anche l’umanità e la solidarietà che sotto la scorza, gratta gratta, ci sono sempre; quello che ci tace, e che invece vorremmo sapere, è come crescono i bambini in un ambiente del genere.