Silvio è un medico che ha lasciato la città per un paese di campagna di soli quindici abitanti dove da tre anni vive in volontaria solitudine. Per festeggiare il suo compleanno e assistere alla celebrazione (che si terrà il giorno seguente) della messa in ricordo della moglie morta dieci anni prima, sono arrivati il fratello Roberto (lui pure medico) e i figli Marialaura, Alice e Riccardo: «la primogenita», «l’ultima», «quello di mezzo», come si legge nell’elenco dei personaggi di Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato), pièce in due atti di Lucia Calamaro, annoverata tra i drammaturghi italiani più interessanti dell’ultimo decennio.
Si tratta di una commedia senza trama, i cui personaggi (costituenti un ristretto gruppo famigliare medio-borghese) fanno assai poco e parlano molto (la loro loquacità è l’esatto contrario del non-detto, dell’inespresso dei personaggi di Cechov, un autore che è stato evocato a proposito di quest’opera pubblicata di recente da Marsilio).
Il loro «fare» consiste in una serie di atti e gesti banali, quotidiani: entrare e uscire da destra o da sinistra (nel testo e nella scena ideata da Roberto Crea non ci sono porte), attraversare il soggiorno portando una pila di asciugamani, tirare dei sassolini in un secchio, sistemare delle sedie a sdraio, bere una tazzina di caffè, addentare una mela, schiacciare rumorosamente una bottiglia di plastica e mangiare fagottini, accendere e spegnere una candelina sulla torta di compleanno, fumare sigari toscani, fare le parole crociate, sfogliare il catalogo di una mostra di Hopper, guardare un western su un minitelevisore, ballare in coppia, e per quanto riguarda Silvio in particolare, mettersi spesso a sedere («io sono ideologicamente contrario a muovermi»), dichiarandosi stanco, stremato dalla presenza e dal rapporto con gli altri («essere socievole è faticoso»). Insomma: minimalismo. O per usare un verso di Laforgue che non piacerebbe a Roberto (il quale ama sfoggiare citazioni tratte da autori francesi, ma è ostentatamente giovanilista), «Ah, come la vita è quotidiana!».
In questa commedia senza plot, in cui non si danno eventi drammatici o azioni di particolare rilievo, i personaggi prendono forma parlando: soprattutto di sé, ma anche degli altri, dei parenti (considerati in relazione a sé, prevalentemente): un estenuante dialogare e monologare dentro il recinto di una realtà famigliare dove le manifestazioni di empatia sono rare e superficiali, e dove non c’è e non può esserci vera comunicazione perché (mi si consenta un’altra citazione da uno scrittore francese, Marcel Proust, che probabilmente piacerebbe a Silvio, anche se da qualche tempo non sopporta chi fa citazioni) «L’uomo è l’essere che non può uscire da sé. Che non conosce gli altri se non in sé: e, se dice il contrario, mente».
Silvio si è stancato da tempo degli altri, non vuole più affaticarsi nella vana impresa di «conoscerli» («Il mio paese interiore è […] un paese spopolato / in cui ogni tanto arriva / l’alieno, l’estraneo. /La famiglia non mi è più famigliare. E i figli, i fratelli, / sono gli estranei più dolorosi»). Ogni tanto (in tono ironico, colpevolizzante, specie nei confronti di Alice e Riccardo) interroga i figli sul loro lavoro, su quello che intendono fare in un prossimo futuro. Ma quando Riccardo lo definisce «afflitto da solitudine sociale», e lo sollecita a non giocare più all’eremita, a tornare in città («Devi strusciarti con gli altri, […]. Ricomincia a sfiorarlo questo mondo.»), Silvio risponde: «Io desisto». Quanto all’ambigua scena finale (Silvio entra in chiesa e dice alla moglie defunta: «Non sono venuti. / Hanno chiamato però. / Non potevano. […] Hanno mandato fiori.»), l’interpretazione più plausibile è che abbia luogo un anno dopo: Silvio non ha accolto l’esortazione di Riccardo: ha scelto di continuare a vivere da solo, in campagna.
Come ho detto all’inizio, i personaggi di Si nota all’imbrunire parlano molto, e poiché Alice (aspirante poetessa) a un certo punto menziona Natalia Ginzburg, qualcuno ricorderà che Pasolini, a proposito delle commedie dell’autrice di Lessico famigliare, parlò di «teatro della chiacchiera», e sarà tentato di applicare la stessa definizione al testo della Calamaro. Ma dovrà riconoscere che qui si tratta di una chiacchiera ambiziosa, che svaria nelle forme (dialoghi in prosa colloquiale, «a parte», monologhi pseudo-versiliberisti, alcuni indirizzati direttamente al pubblico), nei contenuti (banalità quotidiane, notazioni sociologiche, osservazioni psicologiche), nel linguaggio (dal basso-colloquiale al pretenziosamente ricercato, che suona quasi sempre troppo «scritto», artificioso, midcult).
Lo spettacolo, diretto dall’autrice, ha un andamento fluido ed è ben recitato. Eccellente Silvio Orlando nella parte di Silvio. Bravi Riccardo Goretti (Riccardo), Alice Redini (Alice), Roberto Nobile (Roberto), Maria Laura Rondanini (Marialaura).