Di solito gli insegnanti evitano di avere i propri figli tra i loro alunni. Un maestro elementare di Vigevano, invece, un po’ per anticonformismo e un po’ per masochismo, il figlio se l’è fatto mettere in classe. Lo stipendio è magro, quindi fa di tutto per ottenere perlomeno la stima dei superiori (basta partecipare a qualche cenacolo pedagogico, battere le mani, evitare di sbadigliare) e delle famiglie degli allievi (bastano i voti alti in pagella). Avendo una direttrice non troppo generosa nel concedergli la propria stima, il maestro si gode qualche sigaretta in classe, giusto per il gusto della trasgressione (anche uno dei miei professori all’università fumava durante le sessioni di esame). Solo che un giorno, tra voluttuose boccate di fumo, mentre gli allievi svolgono il tema «Perché devo essere serio» (!), la direttrice entra all’improvviso e lo scopre (a nulla vale il disperato tentativo di nascondere il mozzicone acceso nella tasca della giacca), rimproverandolo e umiliandolo davanti a tutti. Una volta a casa, la moglie e la suocera gli chiedono del foro nella stoffa. Sarà il figlio a rivelare il misfatto (non svelo qui il motivo della delazione: gli interessati recuperino il testo). Lo sguardo soddisfatto che le due donne si scambiano porterà alla seconda umiliazione della giornata per l’uomo.
È questo, in sintesi, il fulminante racconto La sigaretta di Lucio Mastronardi, noto anche per essere stato antologizzato in una raccolta di pezzi brevi (curata da Bruno Beffa, Giulia Gianella e Guido Pedrojetta) che ha fatto la fortuna di tanti insegnanti ticinesi (e si spera anche di qualche studente).
Qui (e, con ben altra complessità, nella vicenda di Zeno Cosini) il fatto che un personaggio si accenda (o meno) una sigaretta non è proprio un gesto insignificante, ma, tranne che in casi clamorosi come questi, confesso di non averci mai prestato particolare attenzione (se non retroattivamente). Del tipo: va bene, Tizio prima di parlare estrae il pacchetto dalla tasca, ma vediamo di andare un po’ rapidamente a quel che dice.
Sarà invece buona cosa farci caso, invece, nella raccolta di Stuart Evers, Dieci storie sul fumo, ora disponibile anche nella traduzione italiana (l’originale è del 2011 e ha segnato l’esordio dello scrittore inglese) uscita presso Bollati Boringhieri. L’autore fa della sigaretta addirittura l’oggetto su cui si regge l’intero macrotesto, ed è chiaro che, con un titolo simile, il lettore (un po’ come il fumatore) brama la prossima sigaretta, fino all’ultima di cui leggerà (o che fumerà), e alla quale è significativamente dedicato il pezzo conclusivo.
Così, attorno alla sigaretta si cristallizzano temi e motivi, a partire da quello della crisi di coppia, in cui il fumo può costituire un elemento più o meno rilevante dal punto di vista narrativo. Come nel caso di Peter e Jean. Lui, appena si conoscono, le parla del proprio disturbo del sonno, adducendo motivazioni ereditarie, ma quando lei gli chiede di sposarla, Peter le rivela che forse, a causa di una sigaretta, è responsabile della morte di trentuno persone. O come capita nella vicenda di Angela e Marty, che si ritrovano parecchi anni dopo la loro separazione. Lei lo intercetta su internet e lo invita a raggiungerla in un hotel di Swindon. Fanno l’amore, poi lei si accorge che qualcosa non torna: «Hai smesso di fumare?», gli chiede in tono accusatorio avvertendo il cambiamento dell’odore della pelle di lui. «Da cinque anni o giù di lì», risponde lui. Lei lo guarda delusa, nulla può più essere ricostruito. In un altro racconto, Elaine sospetta che il marito Mal abbia un’amante: fosse, come le pare di avere intuito, una collega di lui, fumatrice, Elaine non se ne accorgerebbe neppure, dal momento che ha perso l’olfatto dopo il parto (e Mal ha smesso di fumare quando lei era in gravidanza).
Anche in altri pezzi il fumo si fa correlativo oggettivo delle disillusioni dei personaggi. È il caso del racconto più riuscito, in cui Linda va a trovare nella loro lussuosa villa il fratello, la cognata e il nipotino di sei anni. Ora però, nel momento di offrirglielo, il maglione che ha con tanto entusiasmo lavorato a maglia per lui le appare disgustoso: sghembo il ricamo dei cavalli, nauseante il fumo di cui si è imbrattato nel suo monolocale, che icasticamente fissa l’esclusione dalla famiglia del fratello. Ed è significativo, infine, come proprio attorno alle sigarette si costruisca la parabola sentimentale di Joe: dopo la dolorosissima separazione da Andrea e il trasloco presso l’amico Mark, conosce Coco, una donna ucraina che vende sigarette di contrabbando. Ad ogni stecca acquistata, con cadenza settimanale, i due scambiano una parola in più. Finché un giorno, a quell’angolo di strada, Coco non c’è più.
Quello del fumo non è l’unico elemento ad attraversare la raccolta, ma i richiami interni (le amicizie tra uomini, la presenza di abitazioni spesso molto piccole, le nevrosi di un ceto medio dai desideri infranti) non sono tuttavia sufficienti a garantire la tenuta complessiva dell’opera. Si ha infatti l’impressione che il gusto per il racconto (spesso a sua volta inserito in un altro racconto) sostituisca la capacità di isolare il dettaglio davvero memorabile e la ricerca dell’istante da cui muovere per accedere alla complessità del Mondo. Sono infatti piuttosto rari i momenti letterariamente ben riusciti, come nel caso della descrizione del piccolo appartamento di Brooklyn che Rob condivide con O’Neil, e che sui due personaggi dice molto più di tante pagine: «Il soggiorno non era molto grande, appena sufficiente per un divano di velluto a coste marrone di seconda mano, un televisore, uno stereo, un tavolino e due librerie. Ci sforzavamo di tenerlo pulito e ordinato - O’Neil aveva la fobia di un’infestazione di roditori – e lo illuminavamo con lampadine a basso voltaggio. Il parquet era ricoperto di tappeti beige e sopra il televisore c’era un poster di Gold Marilyn Monroe di Warhol. Appena lo avevo appeso O’Neil lo aveva preso in antipatia e mi aveva chiesto di toglierlo. Avevamo giocato a sasso-carta-forbice. La carta avvolge la pietra, quindi Marilyn era rimasta dov’era». Non sarà ai livelli dei migliori minimalisti, ma secondo me questa è una bella pagina.