Una scrittrice americana a Parigi

Torna in libreria Autobiografia di tutti, un diario in cui la scrittrice americana Gertrude Stein ritrae anche i famosi artisti che frequentavano il suo salotto
/ 15.05.2017
di Mariarosa Mancuso

Per chi ha visto Midnight in Paris di Woody Allen, Gertrude Stein è la tozza signora con i capelli corti a cui Owen Wilson porta il manoscritto del suo romanzo, implorando una lettura e una perizia (l’attrice era Cathy Bates). Accadeva a Parigi, 27, Rue de Fleurus. Uno dei salotti letterari che sarebbe stato bello frequentare. Assieme al circolo londinese Bloomsbury, in Gordon Square: oltre a Virginia Woolf e a suo marito Leonard c’erano John Maynard Keynes con la ballerina russa sua moglie, Vanessa Bell, Lytton Strachey che scriverà Eminenti vittoriani (poi, con la mano sinistra, un raccontino scollacciato dal titolo Ermyntrude e Esmeralda). Sarebbe stato bello passare qualche sera anche chez madame du Deffand, sempre a Parigi ma nel Settecento, tra gli ospiti anche Jean Jacques Rousseau (tra i due fu antipatia a prima vista, noi stiamo con la signora).

Prima di girare il film, Woody Allen aveva scritto Memorie degli anni venti, riunito con altre piccole delizie in Saperla lunga. La vecchia traduzione era firmata Alberto Episcopi e Cathy Berberian, moglie di Luciano Berio; poi ha rifatto tutto il comico Daniele Luttazzi, ma noi restiamo affezionati alla prima versione, uscita quando Woody Allen non era famoso come oggi (lo scovò Umberto Eco, che nel 1973 lavorava alla Bompiani e firmò la prefazione). 

In Midnight in Paris un cancello da varcarsi a mezzanotte conduce lo sceneggiatore di Hollywood (in crisi e con ambizioni da romanziere, come tutti) negli anni venti della Lost Generation: americani espatriati, avanguardie artistiche, tutti i sabati sera da Gertrude Stein. Lo pseudo-memoir alleniano – scritto da uno che potrebbe essere Fitzgerald, se non per il fatto di infilare i guantoni e fare a pugni con Ernest Hemingway che immancabilmente gli rompe il naso – si immagina in presa diretta. Come L’autobiografia di Alice Toklas, dove Gertrude Stein racconta la sua vita parigina nascondendosi dietro il nome dell’amante (e compagna, e segretaria, e musa, nonché editor e cuoca sopraffina: fecero conoscenza nel 1907, rimasero insieme quasi 40 anni, le ricette sono in I biscotti di Baudelaire, Bollati Boringhieri).

Autobiografia di tutti è il seguito. Subito notiamo l’impegno della scrittrice modernista – «una rosa, è una rosa, è una rosa» risulta fascinoso quanto ostico – nello scardinare le certezze dell’autobiografia (un altro passetto lo farà Jamaica Kincaid con Autobiografia di mia madre). Di solito al modernismo si accoppia il flusso di coscienza, o monologo interiore. Qui il monologo tanto interiore non è: le pagine hanno il ritmo sincopato della chiacchiera, che qualche volta rende difficile la lettura. È il paradosso numero uno, quando si cerca la naturalezza: a furia di imitare la realtà, il disegno diventa incomprensibile (capita spesso con i film in 3D).

Tradotto da Fernanda Pivano e ora riproposto da Nottetempo, Autobiografia di tutti alterna pettegolezzi e fissazioni (anche cosmiche) alla cronaca di un ritorno negli Stati Uniti per un giro di conferenze, e non mancano un paio di storie su ombrelli smarriti. Gertrude Stein – a cui il pittore più tardi farà un celebre ritratto – racconta anche di Picasso che medita di scrivere versi. E poi troviamo Charlie Chaplin, Thornton Wilder, Dashiell Hammett.

«A cosa serve essere giovani se si pensa da vecchi», diceva Gertrude Stein, instancabile sostenitrice oltre che di Picasso anche di Matisse (i due però non si intendevano moltissimo, capita quando hai un salotto troppo pieno di celebrità). Picasso porta con sé un dibattito sul carattere nazionale degli spagnoli – preventivamente preso in giro da Woody Allen, che fa il verso alla «rosa che è una rosa che è una rosa» inanellando tautologie e banalità. 

La vera Gertrude Stein invece ripensa alla sua infanzia, senza trovarci nulla di infelice, al punto da chiedersi: «A che cosa serve avere qualcosa di infelice?» (il fratello Leo, collezionista d’arte che per primo arrivò a Parigi, è meno apodittico al riguardo). È una delle sue frasi da Maria Antonietta – non hanno pane? mangino brioches – pronunciate senza rispetto per il principio di non contraddizione: ora celebra l’avarizia, ora le gioie dello spendere. 

Quanto ai giornali, dice che esagerano sempre: «le cose non sono così drammatiche quando si vivono» (porta come esempio le inondazioni).

Era davvero un’atleta della divagazione, e in una divagazione riesce in qualche modo a teorizzarlo: «A furia di stare attenti – scrive – siamo così concentrati che di sicuro finiamo per inciampare».