Arrivata al suo secondo anno come direttrice di Visions du réel, Emilie Bujès riesce a portare avanti un discorso complesso sul cinema detto «del reale» di cui il suo predecessore Luciano Barisone aveva fatto il suo credo. Mai delusi dalla varietà di proposte che il festival lacustre ci regala ogni anno, ci immergiamo sempre con immenso piacere nelle sabbie mobili del reale alla ricerca di quella «verità estatica» che Werner Herzog non ha mai smesso di cercare.
Quest’anno è proprio sotto il regno di re Herzog che si sviluppa un’importante 50.esima edizione fatta di fruttuosi incontri non solo fra professionisti ma anche e soprattutto fra il pubblico e le sfaccettate realtà filmiche che sfilano davanti ai suoi occhi come un caleidoscopio di un mondo in divenire. Consacrato «Maître du réel» di quest’importante edizione, l’immenso regista tedesco ha regalato al festival un’ambitissima Masterclass durante la quale ha parlato con passione del suo mondo e della complessità di una cinematografia che mette in scena il reale in tutta la sua misteriosa e maestosa diversità. Una personalità che ha contagiato tutti, fino all’euforia.
Da sempre impegnato a creare ponti fra progetti in divenire, professionisti del settore cinematografico e programmatori dallo sguardo affilato, Vision du réel ha ancora una volta saputo riunire il fior fiore delle menti pensanti impegnate nell’esplorazione del reale. Dai giovani registi selezionati nell’ambito del programma Rought Cut Lab 2019 che hanno potuto beneficiare dei preziosi consigli dei «tutors» messi a loro disposizione, fino ai quindici fortunati progetti inclusi nel Pitching du réel, è il futuro del cinema documentario che sfila sulle sponde del Lemano.
I film in fase di produzione che si incontrano e scontrano fra le porte chiuse del programma Pitching du réel, si trasformano in motore di una cinematografia (il documentario) sempre più audace e variegata. Condensato delle problematiche che ci circondano: dall’ecologia, all’immigrazione clandestina e alle tragiche storie che l’accompagnano, passando per la questione dell’identità di genere e sociale, la dipendenza alla pornografia o ancora il matrimonio forzato, i progetti difesi nell’ambito di quest’importante programma sfidano i concetti di «realtà» e di «finzione» già profondamente riconsiderati nella filmografia di Werner Herzog: «sono sempre stato interessato alla differenza fra fatto e verità. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei verità estatica». Un’affermazione importante che rimette la creazione artistica al centro, rigettando allo stesso tempo l’utopia di un cinema come mero riflesso del fatto documentato.
Scegliere Herzog come Maître du réel di un’edizione importante come la 50.esima è un atto simbolico in difesa della libertà del cinema come eco e non come specchio del reale. Una presa di posizione in favore di una verità più profonda che scaturisce da una sensibilità unica e che ci apre le porte di un «qui ed ora» tanto tangibile quanto poetico. «Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda, inerente verità, una verità estatica», sottolinea il grande Herzog che si è sempre preso gioco con ironia ed intelligenza dell’utopia del cinema del reale come riflesso di una realtà inevitabilmente soggettiva ma non per questo meno profonda o peggio ancora illegittima: «Faccio fatica a seguire queste categorie (documentario vs finzione). Tutti i miei documentari sono stilizzati. In nome di una verità più profonda (…) contengono delle parti inventate. Mi capita quindi di dire che sono delle finzioni travestite».
Interrogare il reale senza preoccuparsi della forma che questo può prendere, ma al contrario mettendolo alla prova a livello estetico per distillarne una verità che solo l’arte sa acchiappare. Un’attitudine sicuramente privilegiata dai registi premiati quest’anno nella Competizione internazionale lungometraggi. Heimat Is a Space in Time del tedesco Thomas Heise (Sesterzio d’oro), frutto di anni di ricerche ed introspezione, ritraccia la storia familiare del regista attraverso gli scombussolamenti della Germania del XX secolo. Una messa in parallelo che arricchisce mutualmente le due narrazioni estrapolandone una verità più profonda che il fatto storico o la saga famigliare. Ne scaturisce un’intensa ed esteticamente potente riflessione sulle nozioni di memoria ed identità. Allo stesso modo il film belga Sans frapper di Alexe Poukine (Premio del Jury Région de Nyon) si nutre delle confidenze fatte alla regista da una coetanea, ritrascrivendole ed amplificandole attraverso una sensibilità estetica rivendicata. L’aneddoto personalmente vissuto si trasforma in detonatore di una ricerca affannosa e sincera sulla natura umana e le sue oscure «devianze».
Un modo di procedere che fa eco al cinema di Herzog il quale, per moltissimi dei suoi film di «finzione» (pensiamo per esempio all’immenso La ballata di Stroszek che distilla una serie di allusioni alla vita stessa del suo protagonista: dall’utilizzo dei suoi strumenti musicali all’invasione del suo appartamento), si ispira a fatti reali che ricrea con accurato, quasi maniacale realismo. When the Persimmons Grew di Hilal Baydarov (Menzione speciale) parla del reale, e più in particolare del villaggio natale del regista la cui figura centrale è sua madre, attraverso i gesti delle persone che lo abitano e che si trasformano in sublimi interpreti del suo quotidiano. Che sia la parola, il gesto o la memoria, ogni film indaga la realtà trascendendola attraverso il mezzo filmico. Ne gratta via la banalità affondando le unghie nella complessità delle sensazioni che la abitano per raggiungere infine quella verità estatica che Herzog erige a regola, e che Visions du réel non smette di celebrare.