Scrive il Vasari a proposito delle sculture di Michelangelo che sono sul sarcofago di Giuliano de’ Medici in San Lorenzo a Firenze: «E che potrò io dire della Notte, statua unica o rara? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne così fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore la malinconia di chi perde cosa onorata e grande».
E ancora riferisce che tanti uomini illustri scrissero «versi latini e rime volgari in lode sua».
Uno di questi fu Giovan Battista di Lorenzo Strozzi che invia questa quartina al maestro:
La Notte che tu vedi in sì dolci atti
dormir fu da un angelo scolpita
in questo sasso; e perché dorme ha vita:
destala se no l credi, e parleratti.
Michelangelo risponde con un’altra quartina:
Caro mi è il sonno e più l’esser di sasso
mentre che il danno e la vergogna dura,
non veder, non sentir mi è gran ventura:
però non mi destar, deh parla basso.
Nel silenzio della notte, nel silenzio della pietra un mondo di voci e di altre figure si apre, uno spazio riempito dalle parole non dette, che lì trovano il luogo dove risiedere e raggiungere il senso più profondo e nascosto nel loro suono.
In quelle voci e parole, in quelle visioni che si hanno nei sogni e quando ci si smarrisce negli angolini bui della mente, lì, soccorsi dalla distanza incolmabile tra l’opera compiuta e il pensiero che l’ha giustificata, per poi consegnarla a una sempre impalpabile ma costante distanza, si anima un’ altra versione della realtà.
Le cose del vivere ci sembrano come allungate in una specie di morte che si può contemplare e assecondare in tutto quello che racconta la sua voce silenziosa.
Gli amori di tutta una vita diventano un unico incolmabile amore, che muta in assenza di sé per trovare il suo aldilà, la sua vera essenza, che si nasconde nelle ombre del pensiero allungate e incombenti sul territorio avvilente della nostra arroganza.
E le cose mutano aspetto, seguendo il nostro volere, e si agitano in un tremolante mondo fondato sull’assenza di luoghi e di momenti andatisi a smarrire in un altrove in sé e da sé nutrito.
Dentro l’intimità della notte aleggiano i tormenti dell’anima, ma sono come trasfigurati, quasi privi di identità, sospesi tra un rumore giù in strada e il tacere che fanno le stelle, già scomparse per diventare altro, fagocitate da un ricordo.
Le ombre di ogni nostra paura è come se ci proteggessero da una più grande paura, dall’ineffabile destino: scorrono lungo muri e ricordi disegnando la storia di tutte le volte che ci siamo perduti nel cercare un pensiero che avevamo smarrito.
E nel pensiero ci perdiamo, trascorrendo verso il sonno, verso la distanza da tutto, dentro l’oblio di ogni cosa e colore, nel silenzio e nell’oscurità protettiva e accogliente.
Ci sorprende una notte ulteriore, che ci fa valicare ogni ostacolo, evitare ogni trappola, dimenticare di esserci ancora nel mondo brutto.
E siamo lontani da ogni pretesa, dalla boria e dagli insulti della natura.
Tutto s’acquieta e, tra le pieghe del sentire, si scorge, più nitida e sicura nel brillìo della oscurità, una presenza d’altrove, un vuoto che si stempera nel vuoto acquisendo sembianza divina o di cosa che non si riesce a nominare.
Le ombre si ritirano dentro una più oscura oscurità che rassicura, distendendosi sull’invadenza delle parole, sulla città di tutte le cose e degli eventi che si rincorrono e si schiudono a tutta la loro precarietà.
La notte si alimenta del suo proprio stare, fecondando silenzi inudibili, parvenze di vero, coniugando esistere con oltrepassare.