Pochi sono gli artisti che come Cesare Lucchini hanno accettato il rischio di confrontarsi senza mezze misure con la realtà, interrogandosi sull’uomo e sul suo operato al fine di fare della propria pittura uno strumento di ricerca della verità. A muovere Lucchini non c’è alcuna volontà di dare giudizi, ma solo un’insopprimibile esigenza di sondare l’essere umano per riuscire a rintracciarne i valori più profondi.
«Non voglio descrivere, ma esprimere», rimarca Lucchini ed è per questo che ognuno dei suoi dipinti è abitato da quello che lui stesso definisce «uno spazio morale»
Per il pittore ticinese, classe 1941, tutto ha inizio dal raffronto, doloroso ma necessario, con le vicende più drammatiche della nostra epoca. Eventi che quotidianamente colpiscono la sua emotività che assimila e processa attraverso la sua arte. Lucchini si interessa a temi legati alle guerre, ai naufragi dei profughi e ai disastri ambientali: tragedie che talvolta vede con i propri occhi, come gli sbarchi di migranti a Lampedusa, e di cui non si fa semplice cronista bensì sensibile indagatore.
«Non voglio descrivere, ma esprimere», rimarca Lucchini ed è per questo che ognuno dei suoi dipinti è abitato da quello che lui stesso definisce «uno spazio morale», capace di riassumere la condizione dell’uomo.
È così che la sua visione dei drammi contemporanei ci arriva chiara e potente attraverso un gesto che si posa sulla superficie della tela in maniera tanto istintiva quanto eloquente. Ed è interessante notare come la pesantezza dei soggetti trattati entri spesso in antagonismo con i colori delicati utilizzati dall’artista. I suoi celesti, i suoi rosa salmone e i suoi gialli tenui sono tonalità elegiache, quasi trascendentali, che si pongono come inaspettate suggestioni cromatiche di armonia. D’altronde la pittura di Lucchini vive proprio di questa dicotomia narrativa: quello dell’artista è un difficile tentativo di rielaborare l’angosciante realtà racchiudendola in una dimensione di riscatto, bilanciando così smarrimento e speranza.
La forza dei racconti pittorici di Lucchini si dispiega sotto i nostri occhi nella grande antologica ospitata al Museo d’Arte di Mendrisio, una mostra che, con una cinquantina di tele e una ventina di opere su carta, documenta le tappe salienti del prolifico cammino dell’artista ticinese. La valida scelta di accostare, in ogni sala, dipinti di recente realizzazione a lavori storici ci offre la possibilità di coglierne la stretta connessione. Una connessione rivelatrice di quanto, pur in una continua evoluzione del linguaggio, l’arte di Lucchini sia caratterizzata prima di tutto da una profonda coerenza espressiva tra passato e presente.
Osservando le opere esposte si può riconoscere quali siano stati i pittori da cui Lucchini si è lasciato ispirare
I dipinti esposti nella rassegna curata da Barbara Paltenghi Malacrida sono quasi tutti di grandi dimensioni. Questo ci rammenta subito come l’approccio alla pittura di Lucchini sia sempre stato fisico e immediato. Basta riflettere sul suo modus operandi per rendercene conto. Niente schizzi o studi preparatori: Lucchini è un pittore puro che lavora direttamente sulla tela e su più tele contemporaneamente. L’artista sottopone le sue opere a rielaborazioni costanti, come se chiedesse loro sempre di più. La materia pittorica modificata senza tregua è sintomo del suo non sentirsi mai arrivato. Lo è anche il suo modo severo di fare autocritica che spesso lo porta a distruggere i suoi dipinti. Nulla è mai scontato e tutto rimanda a un’idea di precarietà.
Osservando le opere esposte si può riconoscere quali siano stati i pittori da cui Lucchini si è lasciato ispirare nel corso dei decenni, a partire da quando, nel 1961, approda a Milano per frequentare l’Accademia di Brera. Nel capoluogo lombardo sono gli anni della delegittimazione dell’arte (proprio nel 1961 Piero Manzoni crea la sua Merda d’artista) e qui Lucchini impara i segreti del mestiere. Si confronta con l’Informale e con figure quali Ennio Morlotti, Franco Francese e Alfredo Chighine, ma volge già lo sguardo verso pittori quali Nicolas De Staël, colpito dai forti slanci emozionali dei suoi lavori. Riesce a captare nondimeno le suggestioni della Pop Art, sbarcata nel 1964 alla Biennale di Venezia, e a interessarsi alla pittura degli americani Arshile Gorky, Willem de Kooning, Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, soprattutto durante i suoi viaggi a New York.
E quando poi, alla fine degli anni Ottanta, la lunga stagione milanese volge al termine, Lucchini viene attratto dalla scena artistica tedesca, approdando dapprima a Düsseldorf e poi a Colonia, per avvicinarsi alle ricerche legate alla nuova figurazione incarnate in quel contesto dal gruppo dei Neue Wilden. È adesso che la sua pittura si apre al dramma del contemporaneo: la realtà esterna invade le sue opere, costringendolo a misurarsi con l’attualità e a esplorare nuovi territori, più infausti e inquieti.
I lavori selezionati per l’antologica appartengono ai cicli pittorici più importanti di Lucchini e testimoniano bene tutto il suo iter artistico. Non è quindi un caso che a dare l’avvio al percorso espositivo sia una tela che fa parte della serie degli Interni, una delle più significative del pittore tra quelle risalenti agli anni Settanta. In questo dipinto Lucchini delinea lo spazio del suo atelier rappresentandolo con una prospettiva incombente e caricandolo così di una marcata connotazione esistenziale.
Ci sono poi le opere dei cicli Quasi una testa, dove il grande cranio-teschio si fa metafora dell’uomo nella sua provvisorietà, e Quasi crocifissione, in cui l’iconografia religiosa viene combinata con riferimenti a eventi dell’attualità: due serie dove quel «quasi» nella titolazione simboleggia una forma di incompiutezza.
Di particolare interesse sono poi i lavori appartenenti ai cicli realizzati negli ultimi quattro anni, a partire dal periodo pandemico, in cui i dettagli narrativi tendono a scomparire e si fa più evidente il processo di riduzione all’essenziale. Nelle opere delle serie Venti di guerra e La terra trema la gamma di colori carica di luce utilizzata da Lucchini entra in contrasto con le tematiche trattate: qui una profonda irrequietudine promana dalle ampie tele dove il vuoto pare dilatarsi. La figura umana è totalmente assente e compare spesso, invece, una montagna delineata sullo sfondo, imponente nelle proporzioni seppur dalla sagoma quasi accennata. L’artista sceglie questo soggetto come emblema di una natura depauperata e di un luogo che, dall’alto della sua maestosità, presenzia silente all’implacabile declino dell’uomo.