Dove e quando 
Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 29 marzo


Una panchina e tre incontri occasionali

Un atto unico di Mario Diament con un personaggio che ricorda Borges
/ 26.03.2018
di Giovanni Fattorini

Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne è un libro di Beppe Sebaste pubblicato da Laterza nel 2008 e riedito per la quinta volta nel 2013. Nelle normali librerie, attualmente risulta «non disponibile». Mi dicono che oltre a essere una riflessione su un arredo urbano che favorisce la sosta contemplativa e gli incontri occasionali (un arredo sul quale ognuno di noi si è seduto o sdraiato almeno una volta: in una strada, una piazza, un parco, un giardino, un lungofiume o un lungomare), è una sorta di catalogo ragionato e poetico delle panchine d’Europa e d’oltre Atlantico più vividamente presenti nella memoria dell’autore, nonché una rassegna delle panchine e delle panche che per lui hanno avuto e hanno un particolare significato nella letteratura e nel cinema. (Chiedo scusa, ma non riesco a trattenermi dal dire che la mia panchina preferita, in ambito letterario, è quella su cui, a Parigi, in una torrida domenica estiva, due scapoli quarantasettenni che non si sono mai visti prima si siedono quasi simultaneamente e posano accanto a sé i loro cappelli, all’interno dei quali hanno scritto i rispettivi cognomi: Bouvard e Pécuchet).

A quanto ne so, non esistono dei libri che abbiano messo a tema la presenza e la rilevanza delle panchine nel teatro occidentale. Se qualcuno vorrà cimentarsi nell’impresa di scrivere un saggio sull’argomento, non potrà ignorare quella su cui – in tre delle cinque scene che compongono Cita a ciegas (Incontrarsi al buio), atto unico dell’argentino Mario Diament – sta seduto un uomo di circa 65 anni – uno scrittore famoso e quasi cieco – palesemente modellato sulla figura di Jorge Luis Borges, il quale era solito trascorrere alcune ore al giorno, tempo permettendo, su una panchina di quella piazza San Martín, a Buenos Aires, che viene esplicitamente menzionata nella didascalia iniziale.

In ciascuna delle cinque scene di Cita a ciegas non c’è azione ma solo uno scambio verbale tra due personaggi. I dialoganti della prima scena sono il celebre scrittore e un bancario cinquantunenne, sposato e padre di due figli, che decide di non recarsi al lavoro, affascinato da ciò che il suo interlocutore viene dicendo sulla rete di coincidenze che alcuni chiamano caso e altri destino; sulle cose che sarebbero potute essere e non sono state; su quelle che potrebbero accadere o sono già accadute in realtà parallele (e qui tornano alla mente le ben più affascinanti considerazioni del sinologo Stephen Albert nel racconto di Borges intitolato Il giardino dei sentieri che si biforcano). Quando lo scrittore racconta di un suo incontro mancato con una ragazza vista molti anni prima in una stazione della metropolitana di Parigi (episodio che fa pensare a una delle più belle poesie di Baudelaire: A une passante), il bancario si sente incoraggiato a parlargli del suo amore (un amore che si è rapidamente trasformato in ossessione) per una giovane scultrice con la quale ha avuto un unico rapporto sessuale. 

Nella seconda scena lo scrittore dialoga con una ragazza che si scopre essere la scultrice, diventata il pensiero dominante del bancario. La terza scena è ambientata nello studio di una psicologa (moglie del bancario) a colloquio con una paziente che è la madre della giovane artista. La quarta scena si svolge nello stesso luogo. Il bancario (che è stato licenziato) ha un aspro faccia a faccia con la moglie, alla quale confessa apertamente la sua divorante passione. Nella quinta e ultima scena siamo di nuovo in piazza San Martín. Dall’incontro occasionale tra lo scrittore e la madre della scultrice veniamo a sapere che la ragazza è morta, strangolata dal bancario, e che la donna con cui lo scrittore sta parlando è la ragazza del remoto e sempre rimpianto incontro mancato di Parigi.

Come ho già detto, Cita a ciegas è del tutto privo di azione: i «fatti» (che riguardano principalmente il bancario e la scultrice) li conosciamo attraverso il racconto orale dei personaggi dialoganti. Ciononostante, il testo di Diament riesce a creare – e questo è il suo maggiore pregio – una suspense che sulla scena del Teatro Franco Parenti diventa palpabile grazie alla regia intelligente e discreta di Andrée Ruth Shammah (anche traduttrice e adattatrice del testo) e alla persuasiva prestazione degli attori, che sono Gioele Dix (lo scrittore cieco), Elia Schilton (bravissimo nel ruolo del bancario), Roberta Lanave e Laura Marinoni (nei panni della giovane scultrice e di sua madre), Sara Bertelà (la moglie del bancario).

Della scena estremamente sobria di Gian Maurizio Fercioni rimane impressa l’immagine di una panchina solitaria e di un muro di mattoni chiari su cui tremano le ombre dei fiori di jacaranda – di cui lo scrittore ricorda il colore e sa riconoscere all’istante l’inconfondibile profumo – che incorniciano come un vaporoso festone il quadro scenico.