«La fotografia non trovò all’inizio grandi resistenze, talmente grande era il suo fascino, se non la preoccupazione dei pittori, che vennero però in parte tranquillizzati quando si precisò, come fece a Venezia Giovanni Minotto sul finire del 1839, che il dagherrotipo “ha tutto meno il colore”».
Certa storia delle scienze seduce raccontando di invenzioni nate per caso, non di rado cercando altro: la penicillina, gli sms, la pasta con i broccoli, la lista potrebbe non finire mai. Su un fronte decisamente opposto c’è l’invenzione della fotografia. Il fotografo e storico della fotografia Italo Zannier ne racconta il travaglio in un suo luminoso saggio dal titolo La lanterna della fotografia. Dall’invisibile all’ignoto, appena uscito nella graficamente molto elegante collana dei Delfini per l’editrice La nave di Teseo. Suprema pratica estetica nata da un indovinato matrimonio tra la fisica della luce e la chimica dei materiali, la scoperta fu cercata a lungo e per molti anni, come si conviene alle idee destinate a durare; la paternità fu reclamata da questo e da quello, il termine post quem fu anticipato di secoli e secoli. Come dire: non l’ha scoperta il tale, prima c’era stato il talaltro che con meno clamore già faceva quei miracoli ecc. Dalle speculazioni tardo-seicentesche sulle proprietà del fosforo, alla camera oscura di Giovan Battista Della Porta, fino alla paternità attribuita a un medievale frate del Monte Athos, da cui lo stesso Daguerre avrebbe trafugato, secondo tesi bislacca, un antico manoscritto.
Certo è che a chi vada riconosciuto il primato del procedimento tecnico importa poco, anche se forse sarebbe meglio dire che la storia di questo rincorrersi di ipotesi e rivendicazioni denota pesantemente la posta in palio: l’ansiosa importanza scientifica e insieme culturale del nuovo prodotto. Conviene fermarci sul fatto che la fotografia come fenomeno culturale, questo è fuori di dubbio, ha una sua data e un suo padrino: il 1839 e Louis Daguerre, che (di nuovo non è un caso) fece insieme l’artista, il chimico e il fisico.
Il libro di Italo Zannier (a essere un esperto di onomastica si potrebbe aprire un mondo di riflessioni socioculturali su quel prenome così peninsulare e quel cognome così friulano) ha poi l’incedere della ormai mitica sociologia dei media, à la Marshall McLuhan, per dire. Ai suoi tempi, la novità della fotografia si staglia su un affollato fondale di altre scoperte sorelle: quella dell’elettricità, quella dei trasporti su rotaia, quella sorellissima dell’illuminazione pubblica, il telefono, le macchine per scrivere e per tessere. Similmente a tutte queste, la fotografia spiazza la realtà sociale e culturale dell’epoca, illumina sguardi e città, piega certezze precedenti, cambia in concreto l’uomo, la donna e il mondo abitato. La luce artificiale diventa un «nuovo alito luminoso», il nostro nuovo Sole, e ha insieme l’utilità devastante dell’innovazione tecnica e l’estetica sognante della nuova prospettiva culturale. Tecnica e cultura continueranno a darsi il braccio nei decenni successivi, e fino all’oggi quella tensione non è risolta: come sempre, si sa tutto della sua chimica, della sua fisica, della sua tecnologia; il mistero insoluto e prezioso della sua essenza la rende ancora oggi culturalmente incerta.
Adeguata cadenza cronologicamente finale è apparecchiata per la fotografia come fenomeno contemporaneo e digitale, quella diffusa universalmente dal telefonino smart e che Zannier chiama «fotofania», «o foto-apparizione, la tecnica attuale per cui le immagini vivono sul cellulare o nel computer, ma cessano di esistere appena lo strumento si spegne, se non vengono stampate su un supporto materiale». Ha ottantacinque anni, Italo Zannier, ma scrive un libro molto bello e moderno su quella misteriosa nuova luce, che ancora si ostina davanti ai nostri occhi.