Un periodo difficile da raccontare quello dell’arte italiana fra le due guerre. La concatenazione fra arte e politica è promiscua. L’alternarsi fra tendenze classiciste e avanguardiste procede a ritmo serrato. Non sono isolati i casi di autori che aderiscono prima alle più dirompenti novità del Futurismo per poi fare «ritorno all’ordine», nel solco del movimento Novecento. Questi anni complessi, oggi di gran moda, non sempre sono stati oggetto di interesse da parte dei musei, in considerazione del doloroso retaggio sociopolitico al quale sono connessi. A distanza di quasi un secolo sembra che molti di essi abbiano ritenuto i tempi maturi per riguardare con obiettività a queste produzioni, che spesso possono competere per qualità e innovazione con ciò che succedeva nel resto d’Europa. Anche a Lugano lo spirito di questi anni si ritrova nella mostra Una raccolta d’arte moderna italiana attualmente in corso nella sede di Palazzo Reali del MASI. Sono qui presentate opere da una collezione privata (proprietà di una nota famiglia che preferisce rimanere anonima) ora confluita nelle collezioni di Ca’ Pesaro a Venezia e nella quale compaiono, tra gli altri, Carrà, Rosai, Sironi, Campigli. Gabriella Belli, direttrice della Fondazione dei Musei Civici di Venezia, offre per noi un inquadramento di quest’esperienza in un’intervista.
Vorrei iniziare chiedendole di raccontarci la genesi della collezione oggi visibile a Lugano.
Si tratta di una grande storia collezionistica familiare, iniziata nel secondo dopoguerra. Per quanto riguarda le intuizioni, è una raccolta che si modula molto bene sulla pittura del Novecento italiano. Tutti i grandi pittori di quel momento, se così vogliamo dire, sarfattiano (da Margherita Sarfatti, critica d’arte promotrice del movimento Novecento, ndr), della migliore pittura di passaggio e di figura italiana vi sono rappresentati. La presenza di Carrà, Campigli, Sironi è dovuta al gusto del collezionista, che quando li acquisì – parliamo degli anni Sessanta e Settanta – ebbe grande intuizione nella selezione.
Pur essendo tutte opere che appartengono alla temperie culturale di Novecento, affermano una loro piena autonomia dal punto di vista compositivo. Non sono opere allineate alle poetiche principali della cultura visiva di Margherita Sarfatti: patria, lavoro e famiglia. In nessun modo il loro tema è legato al momento storico in cui vengono realizzate, ma sono invece opere di autori che sanno liberarsi dagli schemi. Anche lo stesso Sironi, nelle opere in collezione, mostra il suo talento di maestro, forse fra i più grandi pittori dell’epoca: si occupa di una nuova idea di forma, di figura, di prospettiva e di spazio. La pittura italiana degli anni Venti e Trenta non è molto conosciuta e credo che sia una buona proposta presentare un pezzo di questa storia importante.
Ritornando alle opere in mostra, si tratta di un periodo quasi inscindibile dalle questioni politiche di quegli anni. A posteriori è possibile leggerlo per il suo valore storico artistico?
Il rischio è sempre stato quello di far coincidere le questioni politiche e la pittura di questi artisti che in realtà erano dei personaggi di grande levatura culturale e intellettuale, anche molto avanti nella loro ricerca. Sono stati confinati entro una lettura politica. Ormai questo tempo è passato e quindi tutti noi possiamo riconoscere il valore di un autore come Carrà o Sironi, rendendoci conto che hanno affermato una loro precisa personalità data dal loro lavoro e non dalle loro idee politiche. Siamo chiamati anche a valorizzare la serietà con la quale operarono e agirono all’interno dell’arte italiana.
Fra di loro c’è poi un personaggio come Campigli, che è sempre rimasto ai confini, caratterizzato dal suo amore per gli arcaismi e per l’arte etrusca. Egli si è sempre difeso da ogni pericolo di essere contaminato dalla storia politica dell’epoca. Altri artisti, come Sironi, hanno avuto invece delle chiare complicità e si sono molto adoperati per la grande decorazione, che è stata uno dei capitoli principali della pittura del Fascismo. Alcuni artisti sono stati felicemente fuori dalla bagarre politica. Lo stesso Carrà ha una storia artistica fantastica: nasce divisionista, diventa futurista, passa dalla metafisica e approda a una nuova figurazione, non in forza di Margherita Sarfatti. Vi approda in chiara e assoluta autonomia. È un artista complesso e articolato: quella che si vede ora a Lugano è la sua ultima grande stagione. Credo quindi che sia oggi corretto che i musei anche stranieri diano spazio e apertura a questa pittura, che nulla ha da invidiare alla pittura europea di quegli anni.
Come si inserisce questa raccolta nelle vostre collezioni di Ca’ Pesaro?
Oggi leggiamo Venezia come un centro di irraggiamento dell’arte contemporanea. Questo suo ruolo inizia nel 1895 con la nascita della Biennale, che fin dall’inizio diventa una delle manifestazioni di questo tipo più importanti in Europa. Comincia a essere frequentata dal pubblico straniero già dalla fine dell’Ottocento. Venezia d’altronde era già una città di grande attrazione culturale e turistica, ma di un turismo molto diverso da quello di oggi. Ricordiamoci che qui passa tutta l’avanguardia del Novecento, esposta nei padiglioni stranieri ai Giardini. Però, dall’inizio del Novecento fino agli anni Trenta, la scena cittadina è dominata dalla figura di Margherita Sarfatti, veneziana di nascita. Quindi, la collezione che si viene a realizzare a Ca’ Pesaro è curiosamente molto legata a Novecento.
Per esempio, noi non abbiamo opere futuriste. L’identità di Ca’ Pesaro parte da una storia di pittura di paesaggio, che trae origini dall’ultima grande fiammata della pittura di veduta veneziana, da Canaletto, Bellotto e soprattutto Guardi. Nel momento in cui si decise di acquisire opere contemporanee attraverso ciò che passava alla Biennale, ci si concentrò su Novecento, quindi con Carrà, Sironi e Campigli. Quest’ultimo nucleo non è però molto corposo numericamente: abbiamo quindi accolto con piacere il deposito di questa collezione che entrava a Ca’ Pesaro con grande coerenza. Qui in città è passata anche l’avanguardia, ma non ha molto toccato il collezionismo locale negli anni Venti e Trenta. Si tratta certo di un museo che aveva acquisito anche Klimt, Kandinskij, Rodin, ma senza mai davvero aprire all’avanguardia. Quest’anima novecentista era invece nelle corde del museo.
Con questa mostra il museo di Lugano sembra consolidare la propria posizione, già indicata dalla precedente direzione, quale ponte culturale fra aree geografiche diverse, fra nord e sud.
Osservando dall’esterno mi sembra di capire che si lavori molto sul tema del confine, in maniera intelligente, avendo rispetto dell’identità del luogo. Partendo da essa si riesce a fidelizzare il proprio pubblico, aspetto essenziale per un’istituzione culturale, che adempie davvero al proprio compito quando la gente si sente nella condizione di riconoscersi nel proprio museo e nei propri artisti.