Filari di cipressi e oliveti, il filo dell’orizzonte che insegue il dolce disegno delle colline senesi, come onde lunghe di un mare verde, e poi i borghi di pietra e le case di mattoni che punteggiano i campi che sembrano confinare solo con l’azzurro sfumato del cielo: è in questo paesaggio idilliaco, che nasce l’ultimo libro di Anna Luisa Pignatelli, Il campo di Gosto (Fazi Editore), geografia esistenziale e sentimentale di Agostino Neri, contadino toscano capace di affrontare l’ultima parte dell’esistenza con curiosità e amore per la vita. Un anti-eroe, un uomo mite, solido nelle proprie convinzioni e nella profonda umanità che trae forza dalla natura, dalla terra del suo podere che per lui è l’antidoto ad un mondo che gli si rivela ostile, che cerca ripetutamente d’ingannarlo, di piegarlo cancellando i suoi sogni. Abbiamo intervistato Anna Luisa Pignatelli che dopo aver vissuto molti anni all’estero, è tornata a casa nelle Crete Senesi, le terre della sua infanzia.
Una volta le campagne toscane erano «abitate», piene di persone. C’era prossimità, solidarietà, empatia, rispetto per gli altri e per la natura
Sono stati i suoi protagonisti toscani alle prese con il senso della vita, a farla tornare?
In un certo senso sì. Quando ero in Guatemala ho cominciato a scrivere una ricerca sulle etnie maya che stanno scomparendo. Poi mi sono dedicata ad un romanzo su un fotografo che, durante la guerra civile degli anni ’80, diventa un testimone scomodo. Ma dopo essere vissuta in Corea del Sud, in Africa, in Portogallo, mi è successa una cosa curiosa: più mi allontanavo dalla Toscana e dai luoghi dove sono nata, più quei posti, quella gente, quelle voci, a distanza di tanti anni, mi tornavano alla mente. È stato come se parte della mia «famiglia», in senso positivo, riannodasse quel legame affettuoso che ci univa. Così è tornato a me il mondo della mia adolescenza, quel modo di parlare toscano scarno, essenziale, ironico, con espressioni colorite che nascono da una sorta di antica poetica. Allora ho ripreso in mano gli scrittori toscani che amavo come Tozzi con quella sua visione cupa del mondo; Carlo Cassola e la sua idea particolare della natura; e poi Tabucchi con la sua ironia esistenziale, lieve e poetica insieme, e leggendoli ho ritrovato i miei ricordi, le mie sensazioni e tutto un mondo che pensavo di avere dimenticato e che invece la memoria mi restituiva vivido e intatto, pieno di personaggi che mi hanno indotto a scrivere su di loro e ad ambientare in Toscana i romanzi dei quali erano protagonisti.
Ma quel mondo che ricordava, esiste ancora?
In parte c’è ancora perché la gente sente il bisogno di mantenere alcune tradizioni e di perpetuarle e perciò alcuni aspetti di quel mondo ricco di usanze e pieno di significati, permangono, anche se la Toscana della mia adolescenza non c’è più. D’altronde tutto cambia. Una volta le campagne toscane erano «abitate», piene di persone. C’era prossimità, solidarietà, empatia, rispetto per gli altri e per la natura. Poi c’è stato uno spopolamento repentino. Nel giro di tre, quattro anni, nelle Crete Senesi di colpo non c’era più nessuno. Tutti i poderi erano vuoti. I giovani andavano a lavorare in città, o nei borghi un po’ più grandi dove c’erano le fabbriche e lasciavano i vecchi ad occuparsi dell’orto e delle bestie. Anche perché questi spesso si rifiutavano di seguirli e preferivano morire sulla loro terra. Ricordo una coppia di vecchi contadini rimasti soli nel loro podere nel mezzo di tanta terra abbandonata. Di notte, vedevo quella casa isolata, quell’ultima luce rimasta che brillava e intuivo nel buio le finestre spente delle altre case vuote da tempo. Pensavo con angoscia che il giorno in cui quei due vecchi non ci fossero più stati, il mondo che conoscevo, che era anche mio, si sarebbe spento in modo definitivo.
Nel suo ultimo romanzo Il campo di Gosto lei racconta questo cambiamento sociale e antropologico che è ciò che rende difficile la vita del suo protagonista?
Sì, in questo romanzo parlo del paesino di minatori dal quale Agostino, detto Gosto proviene, dove la gente era solidale e non c’erano invidie perché la vita era talmente dura che non avevano tempo per queste cose. Invece dove è andato a vivere, quando per trovare lavoro è dovuto partire, è un borgo più moderno, dove l’industrializzazione ha portato dei nuovi miti: il denaro, il gusto per il potere, per le apparenze, una certa superficialità unita all’arroganza, e per Gosto tutto è cambiato. Lui che apparteneva a quel mondo arcaico, quando si ritrova a interagire con questo, più moderno, diventa «un eroe del nulla» come lo ha chiamato Fabio Pellegrini che conosce bene queste terre, perché Gosto è una persona attaccata ai suoi valori, ad un suo modo di vivere, ad un certo individualismo, al senso di libertà e di solidarietà. Tutte cose che lo rendono diverso dagli altri e incompreso persino da sua figlia, «la sua spina nel fianco» come la chiama lui.
Nei suoi romanzi i protagonisti sono circondati da vari personaggi, spesso cruciali, intorno a Gosto ci sono Zelia, Mirella, Stella, il Masini e poi, menzionata quasi come fosse il peccato originale c’è la famiglia. Come mai?
Per me la famiglia è il luogo dove nascono tutti i problemi delle persone. Sono poche le famiglie che costituiscono un «porto sicuro» per i propri membri. Il più delle volte accomunano per forza persone che non sono fatte per stare insieme, ed è così che si sviluppano le nevrosi e i problemi piscologici che ci portiamo dietro tutta la vita. Per uno scrittore la famiglia è un labirinto in cui vale la pena entrare.
Dei suoi personaggi quale le è più caro, anche per le vicende in cui lo avvolge?
Forse la protagonista di Ruggine, sono legata a questa sua vecchiaia isolata e combattiva. Ma sento vicina anche la giovane donna di Foschia, intrappolata in una situazione familiare difficile con un padre deludente. I miei personaggi sono tutte persone sole che si ritrovano a combattere contro tutti. Colpa anche di quel «nemico invisibile» che si insinua in noi in seno alla famiglia fin dall’infanzia e che combattiamo per tutta la vita tentando di sconfiggerlo. Perché essere se stessi richiede molto tempo e molte energie, anche per capire chi siamo davvero. E questo perché in famiglia passiamo attraverso un viluppo di sentimenti contrastanti: ci sono le rivalità tra fratelli e sorelle; le gelosie tra madri e figlie, invidie e paure che ristagnano in legami familiari dai quali non ci affranchiamo forse mai, perché nella nostra società tendiamo a conservare riti e legami forieri spesso di contrasti e di sensi di colpa. Così finiamo per combattere contro i fantasmi che ci portiamo dietro dal passato, più che contro i problemi che incontriamo durante la nostra vita.