Dove e quando

Fedora, Teatro alla Scala, Milano, fino al 3 novembre. www.teatroallascala.org


Una Fedora glaciale

Torna al Teatro alla Scala l’opera di Umberto Giordano in una nuova produzione firmata da Mario Martone. Spettacolo metafisico ma deludente
/ 31.10.2022
di Davide Fersini

Sosteneva Gianandrea Gavazzeni che una sola opera, nella gran congerie di partiture prodotte in Italia sul finire dell’Ottocento, possa rappresentare appieno l’ideal-tipo del melodramma naturalista; Fedora di Umberto Giordano. A guardar bene, però, la pièce di Victorien Sardou – ridotta a libretto da Arturo Colautti – trova solo nel commento musicale, i tratti tipici del genere che, per convenzione, chiamiamo verista: lo spartito si compone infatti, in estrema sintesi, di due memorabili temi lirici continuamente riciclati, cui fa da controcanto una couleur locale di canzoncine, valzerini e montarine, che vivacizza una scrittura orchestrale altrimenti caratterizzata dall’enfasi effettistica. L’ambientazione aristocratica, invece, ci proietta nei luoghi cosmopoliti delle élite internazionali (San Pietroburgo, Parigi, le Alpi svizzere), costruendo sulla scena un Baedecker del bon vivant di inizio secolo – assai lontano dai sentieri, dai borghi e dai duelli rusticani cari a Verga. La stessa trama, poi, cucita come un guanto di pizzo addosso alla prima interprete, Sarah Bernhardt, prende le mosse dal clamore suscitato nel 1881 dall’uccisione dello Zar Alessandro II, evento che aveva portato il problema del terrorismo nichilista all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. La politica, tuttavia, è solo un pretesto. In Fedora il racconto ruota, sì, intorno ad un omicidio, ma di natura passionale – e dunque giustificato e lecito agli occhi del pubblico borghese di inizio Novecento. La ricerca del presunto assassino nichilista si rivelerà, pertanto, solo un espediente per spingere al suicidio la protagonista, colpevole di avere prima denunciato alle autorità l’omicida e poi di essersene innamorata.

Ed eccoci alla questione cruciale: che fare, oggi, di un simile brogliaccio? Sin dalla prima assoluta, avvenuta al Teatro Lirico di Milano l’11 novembre 1898, la fortuna di Fedora si è giocata quasi esclusivamente sul valore dei due interpreti principali, che in quell’occasione furono la Bellincioni e Caruso – nientemeno! La Scala quindi, fedele alla linea, mette in campo la collaudata Sonya Yoncheva nel ruolo del titolo e il reprobo redivivo Roberto Alagna (che lasciò il Piermarini tra bordate di fischi a metà di una recita di Aida nel 2006) in quelli dell’amoroso omicida Loris Ipanov. I tempi, però, sono cambiati e i cantanti – sempre meno divi – non bastano più ad infuocare il pubblico. Occorre quindi che la drammaturgia trovi un’adeguata rappresentazione, per giustificare la ripresa di un titolo tanto scombinato. A dirigere la messinscena torna così Mario Martone, ormai massimo cantore di Giordano dopo i successi di Andrea Chénier, che inaugurò la stagione 2017/18, e de La cena delle beffe, con cui il regista napoletano aveva stregato il pubblico scaligero nel 2016. Nonostante le ottime credenziali, questa volta, le cose vanno in maniera molto diversa e, per dirla tutta, non vanno bene. Martone sposta la vicenda in una contemporaneità mediata da visioni cinematografiche e pittoriche: se il primo atto si muove tra James Bond e La finestra sul cortile, nel secondo iniziano le citazioni tratte dalle tele di Magritte, condensate prima nella ricostruzione della casa raffigurata ne L’impero delle luci e poi – giunti al terzo atto – nella assiderante desolazione della camera con vista de L’assassino minacciato. Suggestioni magnifiche che, purtroppo, restano inerti e non aiutano né il pubblico a sbrogliare le matasse del libretto, né gli interpreti ad ancorare i loro gesti ad una narrazione coerente. L’intento evidente sembra essere quello di raffreddare i bollori del lirismo verista, ma il risultato oggettivo è una sconsolante desolazione.

Forse per questo, il cast procede un po’ a tentoni, a tratti conformandosi svogliatamente alle indicazioni del regista, più spesso seguendo l’istinto di riempire i vuoti creati da quelle stesse indicazioni. La navigata Sonya Yoncheva approfitta astutamente della situazione per tratteggiare una Fedora più fatalona che femme fatale, sviando in questo modo l’attenzione del pubblico dai maldestri tentativi di aggirare con una tecnica parlante, le trappole disseminate da Giordano nel registro grave del soprano. Alagna, viceversa, forte di una voce ancora salda e squillante, si dona anima e corpo agli afflati di Loris, per trionfare grazie ad un timbro che, pur velato da trent’anni di carriera, risulta ancora uno dei più seducenti che si possano ascoltare. Irrispettosa la prova scenica e vocale di George Petean come De Siriex. Meglio, quantomeno come attrice, Serena Gamberoni nei panni di Olga, anche se la voce filiforme fatica non poco a riempire la sala. Di gran lusso i comprimari – tantissimi – tra cui segnaliamo Caterina Piva, Gregory Bonfatti e Andrea Pellegrini. L’orchestra e il coro del Teatro alla Scala sono guidati da Marco Armiliato, direttore tuttofare che, per quanto corretto, non riesce a migliorare una serata nel complesso disarmante. Si replica fino al 3 novembre.