Se nella parola poetica, talvolta, tanto più ci si addentra nei fatti d’esperienza, quanto più si è vicini al sommo del suo accento, ebbene Massimo Gezzi con Sempre mondo si approssima davvero a questo momento. Subito nelle pagine registra quelle che potremmo definire le fibrillazioni sociali e culturali della sua attuale comunità, quella svizzera, che sembrano poi però propagarsi negli spazi più ampi della cosiddetta società liquida e in quei territori ulteriori del mondo globalizzato, sempre più fosco, abietto, dove guerre, pandemie, migrazioni forzate, hanno mutato radicalmente lo slancio di ogni individuo: «Blessing Matthew, un nome come un augurio / che chissà quante volte si è avverato, / prima che sprofondassi nelle acque / della Durance, a ventun anni, / in fuga dai gendarmi di frontiera. / …».
Ma ecco emergere, proprio da questa pagina di realismo crudo, il momento della speranza, tutto condensato in una bambina dal nome Caterina, che potrebbe poi rappresentare, col suo carico di vitalità e ingenuità, ma anche di slancio emotivo verso il futuro, qualsiasi esso sia, tutte le bambine del mondo. Caterina esiste naturalmente, non è una fluttuante astrazione letteraria ed esiste così potentemente, che con le sue domande dirette e strazianti, nella loro semplice profondità, diviene quasi con la sua flebile vocina, l’alter ego del poeta, la memoria di quella coscienza limpida e iniziale poi sepolta dalle pseudo relazioni a cui ci ha educato il mondo odierno. E il poeta cerca di risponderle in maniera chiara e subitanea, per riempire il vuoto del dubbio, ma in verità si avverte dietro un suo interno balbettio, una fragilità di tono: «… / … “Ma perché / ci sono i poveri?” Brava, penso / … / “Perché qualcuno vuole avere / più denaro di quanto gliene serva / per vivere, star bene”. / “Noi no, non è vero?” “Noi no”, la rassicuro. / Ma ho mentito, ho barato e forse un giorno / non mi perdonerà /».
Ecco, Sempre mondo posiziona sulla quinta della vita il senso di una relazione e quel suo sacro e ostinato cucire e ricucire la ferita di un uomo oramai atomizzato, poiché tutto ciò che lo circonda mira in qualche modo a sfilacciarne i rapporti per farne una matassa di fili inservibile dentro i contatti della nuova digitalizzazione di massa. E difatti si affacciano nei versi anche certe domande forti, maturate da alcuni studenti nel tempo del lockdown, sempre sospese sul declivio scosceso dell’inquietudine; certo così diverse l’una dall’altra ma sempre risolutive, spiazzanti, per le quali alcuna risposta giustamente viene, poiché risulterebbe giustapposta, posticcia. Ecco, sembra in talune pagine, Gezzi, il fedele raccoglitore di quei mirifici messaggi custoditi in certe bottiglie provenienti dal mare della somma giovinezza: «A un certo punto ho staccato la spina, / in tutti i sensi: quella del computer / e anche quella del cervello. / Non mi alzavo più dal letto, / sprofondavo in me stessa. / Mi sono accorta improvvisamente / di essere al mondo, di essere io /». Tutto allo sguardo del poeta, oramai aduso alle tante traversate transnazionali, diviene rappresentazione simbolica di qualcos’altro e l’esser vissuto in mondi così diversi e lontani, l’italiano e lo svizzero appunto, acuisce i dati del suo discernimento sui fatti dell’accadere, ma amplifica anche lo spazio dei fantasmi, delle ombre lontane mai più raggiungibili; e difatti ecco nel libro soffiare anche quel senso di precarietà ontologica a ogni uomo.
Ma in questa corrente poetica che Massimo Gezzi alimenta, piena di mulinelli, correnti profonde, per lo più fredde che ghiacciano la vita, invecchiandola, rendendola alla fine quasi un meccanismo fuori giri, c’è una fiammella flebile che resiste e non si spegne e che potremmo chiamare, come fa l’autore, «educazione sentimentale». Ecco, quell’educazione, che sembra venire solo dai più piccoli e rieducare gli adulti mutati in peggio dal tempo, dalle distanze, acciaccati da indolenza, talvolta prostrazione; eccola, la loro educazione, sembra in ogni verso venirci incontro, prenderci per mano, ricondurci nel tempo della vera relazione, fatta di poche ma sagaci e pungenti parole, che vogliono da noi una presa di posizione definitiva: «/…“Babbo, / …ma i giorni finiscono?” / Nessuno può saperlo, le ho risposto / sorridendo. “Alziamoci, allora. / Se oggi è proprio il giorno che finisce / prima dobbiamo fare tante cose, / tantissime /”».