Una brillante apologia dell’asino

Realtà, metafore e pregiudizi attraverso i secoli
/ 03.04.2017
di Giovanni Fattorini

Chi qualifica o apostrofa qualcuno col termine «asino», il più delle volte gli vuole dare dell’ignorante. Ma un tale epiteto può anche significare: sei uno stupido, uno zotico, un testardo. Roberto Finzi – storico del pensiero economico e dell’agricoltura, autore fra l’altro de L’onesto porco. Storia di una diffamazione – ha recentemente dato alle stampe Asino caro, o della denigrazione della fatica, un saggio scritto con l’intenzione di chiarire «perché si sia sedimentata l’equazione asino = ignorante e non altre, che pure sono presenti nella storia culturale di molti paesi». Oggi l’asino, scrive Finzi nel Prologo, è «una realtà concreta abbastanza ridotta. Intorno al 2% dell’intera popolazione di animali allevati nel nostro pianeta». E il 96,2% di tale popolazione si trova in Asia, Africa e America Latina. Vale a dire: è «appannaggio di realtà povere. E prevalentemente agricole».

«Un animale stupido, lento e pigro», ma anche «coraggioso, resistente al lavoro e paziente», la cui alimentazione costa davvero poco. Ragion per cui è «la risorsa delle persone di campagna che non possono acquistare un cavallo e nutrirlo». Così recita la voce «Asino» redatta da Louis Jean Marie Dauberton per il Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers – la celebre Encyclopédie – diretto da Diderot con la collaborazione di d’Alembert. Non meraviglia che l’antico e stretto legame con questo prezioso quadrupede sia stato per l’uomo un’occasione di rispecchiamento e una fonte di metafore e di simboli, contraddittori e non di rado opposti, raggruppabili – come si legge in un saggio di Nuccio Ordine su Giordano Bruno che sembra aver orientato il discorso di Finzi – «all’interno di tre grandi coppie oppositive: benefico/demoniaco, potente/umile, sapiente/ ignorante».

Esprime pieno apprezzamento la descrizione cinquecentesca dell’asino – «una quasi appassionata lode», la definisce Finzi – fatta dall’agronomo bresciano Agostino Gallo, secondo il quale non fu certo un caso che il Figlio di Dio abbia voluto nascere avendo accanto a sé questo animale, né che «la intemerata Madre sua» lo cavalcasse durate la fuga in Egitto. A farne una figura di rilievo nella tradizione cristiana contribuisce anche il fatto che la domenica delle palme Gesù entrò in Gerusalemme in groppa a un’asina seguita dal suo puledro (secondo Matteo), o a un asinello (secondo Marco).

Come dice un racconto riportato dall’ugonotto francese François-Maximilien Misson nel suo Nouveau Voyage d’Italie (1691), l’asino dell’ingresso in Gerusalemme fu gratificato dal Redentore con la concessione della libertà, che l’animale esercitò muovendosi dapprima in Palestina, e poi in vari paesi, finché giunse a Verona, dove prese dimora e visse onorato fino alla morte, che suscitò il cordoglio generale. In seguito, i devoti veronesi ne conservarono le reliquie «nel ventre di un asino finto costruito appositamente», che era custodito nella chiesa di Santa Maria in Organo, e che due o tre volte l’anno veniva portato in processione.

L’asino è però figura ambivalente nella tradizione cristiana. Tra i suoi caratteri satanici, lo storico Franco Cardini – citato da Finzi – annovera la propensione alla lussuria, connessa all’enormità del suo organo sessuale, che richiama la mitica figura di Priapo. Muovendosi in ambito pagano, Finzi menziona Luciano di Samosata, l’Asino d’oro di Apuleio (di cui si coglie un’eco anche nel Pinocchio di Collodi), e la misogina Satira VI di Giovenale, dove si legge che durante la festa della dea Bona – alla cui celebrazione non potevano partecipare i maschi – le donne, al colmo dell’eccitazione, mandavano a chiamare i loro amanti, e se questi non erano immediatamente disponibili, ricorrevano agli schiavi o si servivano di un asino.

Nel suo De minore asello, Lucio Giunio Moderato Columella – agronomo del primo secolo d.C. – scrive che era tipico degli asini l’essere attaccati alla mola per macinare il grano: un lavoro gravoso, aggiunge Roberto Finzi, che li assimilava agli schiavi impiegati per la molitura, e che ricorda il biblico Libro del Seracide, dove il maestro di sapienza ammonisce: «Foraggio, bastone e pesi per l’asino; / pane, castigo e lavoro per lo schiavo».

Ecco allora una delle conclusioni a cui l’autore giunge nel capitolo finale di un libro – al tempo stesso erudito e di piacevolissima lettura –, di cui ho sintetizzato solo alcune parti. «Nell’immaginario, specie in quello “alto”, colto, l’asino è stato al centro […] di una coincidentia oppositorum, di una convergenza degli opposti». Ma nell’uso e nella percezione comune, il termine «asino» – quando è indirizzato a una persona – «è un insulto che richiama l’ignoranza» e l’umile condizione di chi appartiene ai livelli inferiori della società. «È il riflesso del disprezzo sociale per chi è povero: disprezzo che la lezione evangelica combatte senza riuscire a sradicarlo nemmeno in chi cristiano si professa».

Bibliografia
Roberto Finzi, Asino caro, o della denigrazione della fatica, Bompiani, pp. 265, euro 13.