Risale al 1920 il primo impacchettamento della storia dell’arte. Si tratta dell’opera L’énigme d’Isidore Ducasse dell’artista americano Man Ray: una macchina da cucire avvolta in una coperta militare, ben legata con dello spago, a farne un involucro inusuale e misterioso da fotografare. Altro impacchettamento degno di nota è Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda, datato 1968, dello «sciamano» tedesco Joseph Beuys, in cui lo strumento musicale viene occultato con una grande stoffa di feltro grigio, ridotto al silenzio per farne il simbolo della crisi del sistema comunicativo.
Entrambi questi lavori devono aver suscitato grande interesse nel giovane artista di origine bulgara Christo Yavachev, che, nella Parigi degli anni Sessanta, a contatto con gli esponenti del Nouveau Réalisme, incomincia ad avvolgere oggetti ed esseri viventi in tele e plastiche di ogni tipo.
Nella capitale francese Christo conosce in quel periodo anche Jeanne-Claude Denat de Guillebon, l’artista con cui farà coppia fissa sia nella vita privata sia nella carriera creativa. Con lei realizzerà la sua prima opera monumentale, innalzando nel 1962 una barriera di barili di olio nelle vicinanze della Senna per protestare contro l’erezione del muro di Berlino.
Da quell’azione provocatoria trasformata in performance artistica è nato un ensemble affiatato e inseparabile (spezzato solo dalla morte di Jeanne-Claude, nel 2009) che ha saputo creare progetti di grande respiro, sostenuti dalla filosofia del sorprendere e del riscoprire.
Da decenni il duo artistico cela edifici e luoghi naturali sotto drappi colorati con l’intento di conferire loro un nuovo valore estetico. Un’operazione, questa, in cui il soggetto viene nascosto ai nostri occhi, rimosso dal nostro sguardo nel suo aspetto usuale per essere collocato in una diversa dimensione percettiva. La sua storia e le sue qualità fisiche vengono temporaneamente cancellate per essere ripresentate sotto una veste inedita che lo ammanta di un alone enigmatico.
L’effetto è insieme straniante e scenografico. I lavori di Christo e Jeanne-Claude, realizzati con materiali di riciclo e totalmente autofinanziati con la vendita dei disegni preparatori, uniscono la scultura all’architettura, l’urbanistica all’arte paesaggistica, in una contrapposizione tra la lunga durata dell’elaborazione e dell’esecuzione da una parte e la limitatezza della vita dell’intervento dall’altra. L’interazione con i monumenti o con la natura si trasforma così in una struttura raffinata che nella sua presenza effimera sfida il concetto di opera d’arte immortale e vive del fugace attimo in cui riesce a travestire la realtà.
Chi volesse vedere i progetti di alcune delle installazioni più rappresentative di Christo e Jeanne-Claude può visitare l’esposizione allestita in questi giorni alla De Primi Fine Art di Lugano, una mostra che raccoglie una quindicina di lavori a testimonianza del fervido e ambizioso operare della coppia di artisti.
Fra i pezzi presenti c’è il progetto di quello che è stato il loro primo grande impacchettamento: l’imballo di 5600 metri cubi di aria durante la rassegna internazionale documenta IV di Kassel del 1968 (lo stesso anno in cui Beuys avvolgeva il suo pianoforte), attraverso un grande involucro di tessuto trattenuto da lunghi cavi d’acciaio.
Troviamo ancora alcuni studi relativi all’installazione che nell’estate del 1985 ha coinvolto il Pont Neuf, il più antico ponte di Parigi, facendolo scomparire per quasi un mese sotto un telo di poliestere ocra. È questo uno dei lavori più noti di Christo e Jeanne-Claude, nonché uno dei più sospirati, compiuto dopo quasi dieci anni di contrattazioni con le autorità francesi.
Il progetto delle Surrounded Islands, poi, l’intervento che nei primi anni Ottanta ha interessato le isole della baia di Biscayne, vicino a Miami, circondate con 60 ettari di polipropilene rosa che si estendeva per decine di metri sulla superficie dell’acqua, ci dà l’idea delle proporzioni dei lavori dei due land artist. Lavori titanici che spesso diventano eventi anche durante le fasi della loro preparazione. Lo abbiamo potuto vedere di recente, a poca distanza da noi, con The Floating Piers, la piattaforma galleggiante ricoperta di tessuto arancione che permetteva di attraversare a piedi un lungo tratto del lago d’Iseo.
In mostra sono esposti anche gli studi di opere che ancora non hanno visto la luce. Tra queste c’è la scultura composta da migliaia di barili di petrolio che Christo spera di far sorgere a breve nel deserto di Al Gharbia, in un’area poco distante dalla città di Abu Dhabi. Si chiama Mastaba, a rievocare le tombe delle prime dinastie egizie, e, se venisse realizzata, diventerebbe non solo la scultura più grande al mondo ma anche il primo lavoro permanente dell’artista.
Dopo una carriera di grandiose e poetiche opere transitorie, pare che a ottantuno anni Christo abbia deciso di lasciare un segno indelebile della sua arte, un «disturbo gentile», come lui stesso definisce i suoi interventi, che per una volta non sia solo uno spettacolo momentaneo.