Nel teatro di oggi, in Occidente, attori e attrici completamente nudi non sono certo una novità. Tre soli esempi che appartengono al nuovo millennio. Nella Medea di Euripide rielaborata nel 2006 da Antonio Latella (la motivazione della sua recente nomina a direttore della Biennale Teatro di Venezia lo definisce «autore di riscritture sceniche che allargano l’orizzonte del testo»), i figli della mitica maga non erano due fanciulli ma due giovanotti privi di indumenti che si dilettavano a stiracchiarsi reciprocamente il prepuzio. In uno spettacolo del 2004, firmato anch’esso dal regista napoletano, Danilo Nigrelli (che senza varcare i confini di un materasso recitava un florilegio dei Trionfi
di Giovanni Testori) esibiva la nudità indifesa di un corpo che lo sguardo dello spettatore, seduto a poca distanza, poteva percorrere a proprio piacimento e dal quale esalava l’odore acuto di un’abbondante traspirazione. Dei lavori di Jan Fabre – popolati a volte di nudi integrali – mi limito a ricordare The Crying Body (2004), rigorosa partitura con dieci attori-ballerini (cinque uomini e cinque donne), volta a celebrare il corpo umano attraverso i suoi movimenti e i suoi umori (sudore, lacrime, urina, saliva).
Anche Emma Dante, prima dello spettacolo attualmente in scena al Piccolo Teatro di Milano – che lo ha coprodotto col Biondo di Palermo, la Compagnia Sud Costa Occidentale e il Festival di Avignone – si è cimentata con l’uso espressivo del nudo integrale. Cani di bancata – opera poco riuscita del 2006 – terminava con una svestizione di gruppo all’altezza del proscenio. E in uno spettacolo altrettanto poco riuscito del 2004, La scimia, liberamente tratto da un romanzo breve di Tommaso Landolfi, aveva uno straordinario rilievo la figura di Tombo, turbolento quadrumane interpretato dal bravissimo Sabino Civilleri, che si spostava in avanti e all’indietro con balzi frenetici, in perfetta nudità. Tombo-Civilleri ritorna in Bestie di scena come citazione del tutto confacente al titolo dello spettacolo (che salvo pochissime battute dialettali è senza parole, senza racconto, e ha inizio quando il pubblico sta ancora affluendo in platea e in galleria).
Disposti a cerchio sul palcoscenico (una grande scatola nera e vuota), i quattordici attori in tenuta da training (sette uomini e sette donne) eseguono degli esercizi di riscaldamento, mentre gli spettatori si fanno sempre più silenziosi. Poi il cerchio si rompe. Gli attori cominciano a muoversi singolarmente sulla scena, finché si compattano in un piccolo scaglione che spostandosi in varie direzioni (come accadeva all’inizio delle Sorelle Macaluso) fa pensare di volta in volta a un allenamento sportivo, a una prova di danza, a un’esercitazione militare. Nel rumore marcato dei passi e nei rapidi cambiamenti di direzione si avverte una tensione crescente, l’imminenza di un atto risolutivo. E infatti, staccandosi dal gruppo a due o tre per volta, gli attori si portano più volte all’altezza del proscenio, dove si liberano gradualmente di tutti gli indumenti, fino a restare completamente nudi.
Il disagio derivante dalla condizione di nudità (l’impossibile recupero di una paradisiaca innocenza creaturale) si esprime nel gesto reiterato con cui uomini e donne, allineati di fronte al pubblico, si coprono a vicenda i genitali, le natiche, il seno. All’improvviso, dalle quinte, viene gettata sulla scena (un’idea suggerita, a mio avviso, dagli Atti senza parole di Beckett) una tanica legata a una catena. È il primo di una serie di oggetti (alcuni petardi, una bambola parlante, un fioretto, un secchio, stracci per il pavimento, spazzoloni, noccioline) che danno origine a quadri in sé compiuti, in cui domina di volta in volta la paura, il gioco, l’aggressività, la fatica, lo sgomento, e in cui si ritrovano i modi espressivi di Emma Dante (gli allineamenti degli attori all’altezza del proscenio, l’utilizzo dello spazio scenico in ogni punto e direzione, l’alternanza di ritmi lenti e veloci, gli scoppi di fisicità convulsa, la preferenza data al linguaggio del corpo), nonché alcune figure che si erano già viste in altri suoi spettacoli (ad esempio, oltre alla già menzionata scimmia, la ballerina meccanica de Le pulle). Il quadro conclusivo (un mix di figurazioni trascelte dai quadri precedenti) è interrotto dal lancio in scena degli indumenti inizialmente dismessi.
Gli attori della compagnia, come sempre, sono ammirevoli. Ma riandando col pensiero al passato (e ricordando ad esempio Vita mia, che ho amato in modo particolare), mi vado sempre più convincendo che il teatro di Emma Dante, negli ultimi tempi, si è notevolmente depotenziato, e che nei suoi primi anni di attività – al netto degli evidenti tratti epigonali – l’artista palermitana ha felicemente espresso quasi tutto quello di originale che aveva da dire. A parte alcuni passaggi di notevole intensità, Bestie di scena, a mio parere, è una partitura gestuale rigorosa ma di maniera.