Il Ticino è un cantone problematico? Forse un po’ sì, il territorio più a sud della Confederazione ha certo qualche cruccio che gli tormenta il sonno, tuttavia non pare soffrire più di altri: diciamo che il Paradiso è lontano, l’Inferno viene scansato, più che altro si ha dimestichezza con il Purgatorio.
Di nuovo. Il Ticino è un cantone problematico? Sì, se l’aggettivo viene posto in diretta relazione con il sostantivo che ne deriva: non «problema» (assai più antico!), bensì «problematica», ossia un insieme di problemi. Un’indigestione di problemi, stando a quanto sembra piacere la parola «problematica» anche ai cantonticinesi, specie quelli chiamati a esprimersi con cipiglio ufficiale. E qui la mente corre a quel minimondo che è la corsa verso una carica politica, con relativa esposizione del candidato sui giornali, in TV, in radio, e poi sui cartelloni, e ancora sui social, eccetera.
Alzi la mano quel candidato, poi eletto o no, che non abbia mai brandito «la problematica». Anzi, assai spesso il termine (già di per sé piuttosto collettivo) viene promosso al grado plurale, quindi il politico (o politicante?) di turno si dichiara pronto a risolvere «tutte le problematiche». Almeno sul fronte linguistico, cerchiamo di essere un po’ indulgenti. Perdoniamo questo piccolo abuso. Anche alle latitudini nostrane gli esponenti politici non sono linguisticamente senza macchia, forse qualche birichina nuvola (dialettale) transita a volte nel cielo terso dell’eloquio cantonticinese. Ma l’agorà politica è da sempre specchio del paese reale, e il paese reale, in linea di massima, parla come mangia.
Appunto. Tentato dal fast food, il cittadino a volte mangia di fretta e senza posate. Qualcosa di simile è successo anche nel parlar politico. Ecco che infatti gli esperti notano da qualche anno un cambiamento su questo fronte, un modo di esprimersi più diretto, senza troppi fronzoli; un parlare più simile al codice utilizzato nei «social», con spazio e numero di caratteri contenuto. E ben venga! Non se ne poteva più del politichese, il «linguaggio politico infarcito di tecnicismi, giri di parole, formulazioni ambigue e reticenti, espedienti retorici, che lo rendono poco comprensibile» (cit. dal Grande Dizionario Hoepli). Politichese nel quale tra l’altro «la problematica» ha vissuto il suo primo periodo d’oro.
Sarebbe tuttavia sbagliato negare che a questo nuovo codice di espressione del politico non manchino i difetti: proseguendo sull’onda della metafora del fast food, oggi preoccupa parecchio infatti anche la sua deriva, ossia lo sconfinamento in certo «junk food» (letteralmente «cibo spazzatura»), infarcito di insulti, parolacce, sproloqui, minacce e magari maledizioni. Vero è che rispetto al passato si presenta oggi, grazie ai nuovi strumenti di comunicazione, la sacrosanta possibilità di dialogo diretto fra cittadino e politico: «con senso civico, però!», è la grande raccomandazione. (Ma sappiamo ancora, oggi, il vero significato del concetto di «senso civico»?).
Va bene essere sinceri, va bene la libertà di espressione e di opinione, ma non si utilizzi la lingua alla stregua di pernacchie, torte in faccia, sberle o peggio. Certo si potrebbe dire che nel tempo un poco siamo migliorati: un secolo fa le dispute politiche in Ticino si risolvevano anche a schioppettate. Ma attenzione a non fare come i gamberi.