I mercatini natalizi non sono avanguardia. Non che debbano esserlo, ma certamente chi vi si reca non lo fa per cercare nuove idee, nuove sensazioni, nuovi punti di vista: nei mercatini di Natale si vuole e si deve infatti respirare l’eterno ritorno dell’uguale, la puntuale ripetizione di esperienze già vissute in passato, la riapparizione di sapori e odori immutati fin dalla lontana infanzia.
È per questo motivo che risulta perlomeno curioso – quando non schiettamente divertente – il fatto che l’Istituto svizzero di Roma abbia giocato sull’ambiguità del mercatino natalizio per offrire al pubblico italiano le punte più avanzate della creazione musicale confederata. Per cinque giorni della scorsa settimana – nelle sedi di Venezia, Milano e Roma – è infatti andato in scena un mercato d’Avvento sui generis che ha visto l’alternarsi di DJ e musicisti in un virtuoso scambio italo-svizzero. C’erano ovviamente anche delle piccole bancarelle – unico legame fattuale con l’idea di mercatino – ma nessun vino speziato né corone di sempreverdi: tavolini imbanditi esclusivamente con rarità discografiche del presente e del passato, emergenti dal sottosuolo culturale delle Alpi di qua e di là.
L’elemento davvero interessante – ed è una prima assoluta, data l’organicità dell’operazione – risiede proprio nel fatto che la massima istituzione culturale svizzera presente su suolo italiano abbia scelto quel tipo di espressioni musicali per dare un’immagine di sé e di noi. Segno dei tempi che cambiano, verrebbe da dire, la scelta di abbandonare le stantie patinature di altri generi ritenuti più colti o più classici: la Svizzera si mostra nuda e cruda, sincera e sperimentatrice, irriverente e innovativa come frutto imperfetto – ma per questo vivido e meraviglioso – di trent’anni di coerente sottosuolo.
Non è forse un caso – a questo punto, con l’underground come requisito unitario – che nel ponte Svizzera-Italia costituito dall’insolito mercatino natalizio a mancare sia proprio stata la Svizzera italiana: troppo poco Svizzera (nell’assenza di una propria vena creativa urbana, dialettica e progressista), troppo poco Italia (nel consentire l’emergere anche solo sporadico di genialità inventive e originali). Poco male: il semplice fatto che il Mercato di Natale sia esistito ci ha consentito di rinsaldare i legami ideali con quanto di buono e bello avviene nel resto della nostra nazione. Alcuni esempi?
Tanto per cominciare lui, l’icona dell’indipendenza esistenziale prima ancora che musicale e poetica: Beat Zeller, meglio conosciuto come Reverend Beat-Man. Irriverente alfiere di un non meglio definibile «gospel blues trash», l’ormai cinquantenne musicista bernese è un punto fermo nel panorama nazionale ed europeo sia per quello che ha creato come autore, sia per il movimento di pensiero, idee e stile che ha generato con l’etichetta Voodoo Rhythm Records: ormai mondialmente riconosciuta come un’affermazione di Weltanschauung prima ancora che come marchio musicale.
O ancora la pianista e suonatrice di armonium basilese Vera Kappeler, recente premiata al Premio svizzero di musica. Refrattaria a qualsiasi forma di etichettatura, la sua musica spazia da esoterici esperimenti sonori alle canzoni di Paul Burkhard, dalla rivisitazione di vecchi canti popolari fino alla musica per teatro o per le arti visive: produzioni mai scontate, come il programma solistico Grossmutters Flügel, il duo con il batterista Conradin Zumthor (Babylon-Suite il disco uscito nel 2014 per ECM) o le collaborazioni con Marianne Racine.
Tra questi due estremi – personaggi già affermati che congiungono categorie e universi opposti, dal ribelle all’accademico – c’è stato modo anche di incontrare e conoscere diversi artisti della nuova generazione, come il performer vocale Arthur Henry: beatboxer, looper e auto-dj dall’inesauribile vena creativa.
Ecco tratteggiato un possibile presepio – discontinuo, scomposto, meraviglioso – della musica svizzera contemporanea.