Anche a distanza di decenni, è innegabile come uno dei più grandi rimpianti sperimentati dagli appassionati di musica anni 60-70 risieda nella sparizione dalle scene di una delle migliori promesse che il cantautorato di lingua inglese abbia mai potuto vantare: colui che un tempo si faceva chiamare Cat Stevens e che, nel 1977, proprio all’apice di una fulminea quanto eccezionale carriera, decise di convertirsi alla religione islamica, assumendo il nome di Yusuf Islam e lasciandosi alle spalle il mondo della musica – apparentemente per sempre. Ma nessuno dotato di tale talento sarebbe mai riuscito a rinnegare del tutto il passato, e anche il buon Yusuf/Cat è infine stato costretto a tornare sui propri passi, incidendo, tra il 2006 e il 2017, quattro nuovi dischi.
Oggi, l’artista sceglie di cimentarsi con un esperimento quantomeno azzardato – la rivisitazione, dalla prima all’ultima traccia, di quello che è senz’altro il suo album più importante: il celeberrimo Tea for the Tillerman (1970), il cui cinquantenario si celebra proprio quest’anno. A una vita intera di distanza dal suo più grande successo, Stevens si trova quindi a ripercorrere l’intero excursus creativo che un tempo lo portò a vette mai più toccate – in un’operazione, di fatto, non priva di rischi, in quanto il confine tra il desiderio di rinnovamento e la mera «operazione nostalgico-commerciale» è molto sottile. Eppure, è proprio qui che la genialità di Yusuf riaffiora in superficie, ricordando a tutti il grande artista di allora: vi è infatti, in questo Tea for the Tillerman2, l’innegabile intensità derivata dal tipo di saggezza che solo un uomo anziano può racchiudere dentro di sé – una forza quasi primordiale e un’implicita grandezza d’animo, che infondono i capolavori del «ragazzo prodigio» di un tempo di uno spessore nuovo, a tratti perfino commovente.
Ecco quindi che il classico dei classici, ovvero la ballata intimista Father and Son, rivive di nuova gloria nel momento in cui la voce di Stevens, inevitabilmente meno cristallina ed eterea di un tempo, si carica di percepibile maturità ed esperienza – giungendo, nell’immaginario dell’ascoltatore, a incarnare davvero e fino in fondo la figura del padre all’interno del dialogo a due tratteggiato lungo il brano; e l’impatto emotivo ne è, incredibilmente, raddoppiato, almeno per tutti coloro abbiano familiarità con la versione originale. La stessa esperienza accompagna l’ascolto dell’immortale Where Do the Children Play?, il quale, grazie all’aggiunta di vaghe sfumature rock, suona, per certi versi, ancor più rilevante di prima.
Così, l’intero album diviene una vera e propria ricerca spirituale, accompagnata dalla voce suadente di un vecchio amico infine riemerso dalle nebbie del tempo; una ricerca incentrata sulle inevitabili ripercussioni che il trascorrere di una vita intera – e, soprattutto, la maturità e l’esperienza raggiunte nell’arco della stessa – hanno sulla sensibilità artistica e sull’opera di qualsiasi musicista davvero consapevole (si veda l’intenso On the Road to Find Out, ora divenuto un blues amaro, chiaro simbolo del «viaggio interiore» intrapreso così tanto tempo prima dal suo autore).
Inoltre, l’impressione è che Stevens abbia anche voluto allontanarsi, per quanto possibile, dalla matrice rigorosamente folk/acustica di un tempo, per sperimentare qui generi diversi, alcuni dei quali quantomeno inaspettati: ecco quindi che Wild World viene riproposto in una versione quasi da jazz café, in cui fisarmonica, pianoforte e clarinetto intessono un tappeto sonoro meditativo, in contrapposizione all’irruenza giovanile dell’originale.
Qualcosa di simile si può dire anche per But I Might Die Tonight, che diventa quasi una sorta di epica cavalcata cinematografica, perfetta per una colonna sonora. Non solo: qua e là, Yusuf giunge perfino a modificare le liriche dei brani – si veda Hard Headed Woman, in cui l’ormai maturo artista ci confessa di aver infine trovato la famosa «donna cocciuta» che, nell’originale, dichiarava di cercare con tanta insistenza; e in effetti, nella voce di Stevens si avverte proprio quella sorta di calma e pacifica consapevolezza che solo la presenza di una donna devota può donare all’animo di un uomo – un dettaglio forse definibile come il simbolo più toccante ed eloquente dell’effetto di questi cinquant’anni trascorsi dall’inizio di tutto.
Di fatto, qualsiasi sia la posizione dell’ascoltatore – si tratti di un ammiratore di vecchia data di Stevens, o di un neofita – l’impressione lasciata da quest’album rimane quella di una grande, vagamente incredula meraviglia. Perché se, da un lato, era facile prevedere che i brani della tracklist sarebbero invecchiati benissimo, dall’altro le attualizzazioni e i rimaneggiamenti di Yusuf rappresentano un successo a sé stante, conferendo a Tea for the Tillerman2 il legittimo status di nuovo classico, e innalzandolo così al rango di un lavoro che nulla ha da invidiare al proprio predecessore: un risultato più unico che raro.