Nove bambini su dieci, se decidono di suonare uno strumento, scelgono il violino o il pianoforte; da adolescenti inizia a esercitare una certa attrazione la chitarra, perché suonata nelle band che si ascoltano e perché quando ci si trova tra amici sostiene e accompagna il canto (magari attirando le attenzioni di qualche amica particolare). Curiosità destano coloro che scelgono strumenti più desueti come l’oboe, il clarinetto o la tromba, mentre il violoncello non è così infrequente. Ma quanti conoscono un parente o un compagno che fin da piccolo ha desiderato imbracciare il mandolino?
La risposta fa capire la sfida che Avi Avital si è trovato davanti fin dal primo momento in cui decise che avrebbe suonato il mandolino. Aveva sette anni. «In effetti, forse, se mi fossi posto questa domanda non avrei neppure iniziato: perché che prospettive offre uno strumento così a un ragazzo che vorrebbe vivere di musica, tenere concerti in tutto il mondo, suonare con le orchestre, incidere dischi? Onestamente, c’era una sola risposta: nessuna. Ma avevo sette anni e questo genere di problemi non rientravano nel mio orizzonte mentale. Per fortuna».
Sorride Avital, ripensando a quel-l’inizio «Com’è possibile scegliere uno strumento così desueto? Semplice, a Beer-Sheva non lo era! Lo suonava un mio vicino e rimanevo catturato da quel suono così acuto e cristallino. In città c’era un’orchestra di strumenti a plettro, vi ho suonato fino ai diciotto anni: è stata un’esperienza indimenticabile, per me era un vero godimento condividere con tanta gente il piacere di far musica». La maggiore età portò inevitabilmente quei pensieri che a sette anni non potevano essere contemplati: «Soprattutto perché, frequentando il Conservatorio, vedevo i miei compagni di talento che iniziavano a pianificare le loro carriere: i concorsi, i primi concerti, le richieste di suonare che diventavano sempre più frequenti; ma loro avevano scelto il pianoforte, il violino, il violoncello. Io dove potevo andare, con in mano un mandolino?»
Il bello fu proprio questo: non c’era una strada, Avital l’ha tracciata e lastricata da solo, fino ad arrivare a incidere con orchestra per la Deutsche Grammophon, la mitica etichetta gialla di Karajan, Rostropovich e Pollini, a essere chiamato nei templi del concertismo mondiale, da Berlino a New York, da Londra a Tokyo. «Ma ho dovuto guadagnarmela, metro dopo metro, passo dopo passo. Innanzitutto avevo bisogno di uno strumento più potente, che sapesse far sentire il suo suono in sale da concerto grandi, che non fosse soffocato dall’orchestra; un liutaio me ne ha costruito uno non piriforme e con la superficie inferiore meno bombata, più piatta. Poi c’era il problema del repertorio: quello originale è davvero esiguo, con un paio di Concerti di Vivaldi, due Sonatine di Beethoven, qualche nota di Mozart e Hummel; per vivere e svilupparsi tecnicamente uno strumento ha bisogno di opere da eseguire, così ho iniziato a chiedere a vari compositori di scrivere per me: a oggi mi hanno dedicato una novantina di brani».
Non potevano comunque mancare le trascrizioni: «Iniziai da Vivaldi, ad esempio con le Quattro Stagioni, e da Bach: eseguire al mandolino le Stagioni o la Ciaccona originariamente scritta per violino solo è stata una sfida tecnica enorme, ma il timbro del mandolino ha permesso di far ascoltare questi brani celeberrimi attraverso prospettive inaudite». Hanno colto nel segno, ma non è stato facile: «Quando proposi ai discografici i concerti con orchestra mi guardarono perplessi, e molto; li invitai ad ascoltarmi e si convinsero».
È diventato l’icona del mandolino, affrancandolo dallo stereotipo dello strumento «pizza e canzone napoletana»; ai suoi concerti vengono anche tanti giovani «e con loro utilizzo i social: dopo un recital mi piace postare un commento, chiedere pareri; rispondono in tanti, magari è il pubblico stesso ad aprire una discussione su Facebook, poi talvolta finisce che ci si incontra dal vivo».