Prendi un ex cantiere navale in disuso vicino ad Escher-Wyss-Platz, Zurigo, mettilo in mano ad architetti, organizzatori di eventi e a politici che hanno una visione, che sanno cosa sia una visione, ed ecco il risultato: lo Schiffbau da alcuni anni si presenta come vero luogo di cultura capace di radunare sotto lo stesso tetto un locale jazz dall’acustica imprendibile dotato di un proprio bar, uno spazio teatrale in grado di ospitare dalle 400 alle 600 persone, un altro spazio teatrale capace di ospitarne 300, un grande ed elegante ristorante, un bar sul tetto nonché un impressionante bar post industriale dai soffitti infinitamente alti e costeggiato in tutta la sua lunghezza da divani di cuoio.
Nello Schiffbau la cultura si respira non solamente nella programmazione, di tutto rispetto (la struttura è una costola della più centrale e tradizionale Schauspielhaus, il teatro cittadino), ma anche nel design, negli arredi e soprattutto nel mood della gente, che riconosce in quel luogo lo spazio ideale per indugiare, scambiare opinioni o semplicemente consumare una birra. Forse anche da noi, prima ancora dei concerti, delle rappresentazioni teatrali e delle mostre, andrebbero considerate le possibilità aggregative di un luogo che si vuole preposto alla cultura.
Polemiche a parte, venerdì 7 dicembre il jazz club Moods ha ospitato per la sesta volta la curiosa formazione inglese dei Tiger Lillies, composta dall’istrionico Martyn Jacques, da Adrian Stout e da Jonas Golland. In una sala caratterizzata da un’acustica strepitosa, in un ambiente estremamente intimo nonostante le duecento persone presenti, il trio, specializzato in quello che qualcuno ha definito «cabaret punk brechtiano», ha presentato il nuovo album The Devil’s Fairground, che uscirà ufficialmente nel gennaio del 2019. L’album, nato da un soggiorno a Praga, pur presentando molti brani blueseggianti, soprattutto nei contenuti cerca di ricalcarne le note gotiche, quel grigiore decadente che rende la città ceca tanto attraente.
L’ambientazione, a partire dal titolo («La fiera del diavolo»), è sombre come sempre: con il falsetto che l’ha reso celebre, e accompagnandosi con la fisarmonica o il pianoforte, Martyn Jacques canta di amori dilaniati, di persone comunemente considerate uno scarto della società (e in questo si possono riconoscere dei rimandi a Tom Waits), di droghe e di dipendenze, spingendosi fino ad addentrarsi in un terreno blasfemo che, se preso troppo sul serio, potrebbe quasi fare rabbrividire. Invece si ride, si sorride e si riconosce la genialità e l’ironia di un trio di artisti che prima di dedicarsi al demonio ha rivisitato le canzoni di Edith Piaf, ha cantato i racconti di Edgar Allan Poe, la storia di Woyzeck, di Franz Biberkopf e il culto dei morti del Messico e, non da ultimo, ha portato in scena l’Amleto.
Ed è proprio grazie a tanta versatilità che, a poco a poco, il palco dello Schiffbau, ha potuto diventare un luogo altro, universale nel suo magnifico squallore: lo spettatore è stato catapultato in un tempo sospeso, da qualche parte a cavallo tra le due guerre, in un no man’s land in cui tutti possono riconoscersi, pur restando saldamente attaccati al presente.