Giovanni e i cartoncini bianchi. In redazione le visite di Orelli sono sempre state molto apprezzate

Qui in redazione lo ricorderemo così, quando ancora veniva a salutarci regolarmente, cosa che avveniva meno spesso negli ultimi mesi. Il suo buongiorno, inconfondibile, con la «r» arrotolata e quell’accento «d’insù», che anni trascorsi a Lugano non avevano mai del tutto cancellato, riecheggiava per gli spazi dei nostri uffici. Se era inverno Giovanni Orelli indossava un berretto di tweed, le guance erano accese quando il freddo era pungente; sotto il braccio l’immancabile cartelletta di cuoio marrone.

«Buongiorno Professore», gli rispondevamo andandogli incontro, perché le sue erano sempre visite gradite, anche quando annunciava di avere pasticciato di nuovo con il computer e chiedeva a uno di noi di recuperargli qualche documento a domicilio.

Con l’umiltà e la discrezione che erano diventati i suoi tratti distintivi negli ultimi anni, cercava di fare in fretta: per non rubarci tempo prezioso si limitava ad accennare a qualche bel testo in cui si era imbattuto di recente. Ma poi bastava una domanda da parte nostra, una curiosità espressa a malapena, quasi en passant, che i suoi occhi azzurri si facevano vispi, illuminandosi, e prendevano il colore di quel cielo di montagna sotto cui era cresciuto. Cominciava allora a recitare versi a memoria, a raccontare, con gioia e volentieri. Saltabeccava qua e là tra versi di poesia e citazioni, aprendo gli innumerevoli cassetti di una conoscenza sterminata, e che certamente mancherà a molti.

Come il suo altrettanto celebre cugino Giorgio, anche lui con gli anni (nonostante rimanesse attento a quanto usciva di nuovo e alle voci più interessanti) si era avvicinato sempre più a Dante, che identificava ancora oggi – o forse oggi più che mai – con la summa di tutto quanto la letteratura potesse, o dovesse, dire e dare.

A noi, oltre al privilegio di pubblicare centinaia di suoi arguti e ficcanti articoli, con punte di polemica sempre rispettosa, restano innumerevoli cartoncini bianchi. Quei cartoncini sui cui, fino all’ultimo, con la sua scrittura minuta che raccontava del bambino curioso ma anche furbo che certamente era stato, si raccomandava, o semplicemente, ci salutava, augurandoci una buona giornata. Simona Sala

Giornalismo e un pizzico di poesia

Il tono di voce era grave, lo sguardo serio: «chi ha scritto il titolo del suo editoriale?». Lo guardai imbarazzato, chiedendomi quale errore avessi commesso. «Io», risposi, aspettando una sua critica, ma lui si addolcì: «È un endecasillabo perfetto! E come suona bene!». Giovanni Orelli era così, scovava poesia anche in un giornale. Quel giorno di quasi sette anni fa, un cerchio per me si chiudeva: era stata la sua visita nella mia classe di quarta ginnasio a farmi nascere il desiderio di diventare giornalista; ci aspettavamo una lezione noiosa, invece analizzò con passione un lungo reportage, introducendoci in un mondo nuovo che da allora divenne il mio. Lo ringrazio per avermi insegnato che nel nostro lavoro può esserci spazio anche per un po’ di poesia. / PS


Un intellettuale a modo suo

Una collaborazione, quella di Giovanni Orelli con il settimanale «Azione», durata quattro decenni, e che lascia a tutti un ricordo commosso e grato
/ 12.12.2016
di Luciana Caglio

Oggi, 12 dicembre, a partire dalle cinque del pomeriggio la redazione di «Azione» apre le porte a collaboratori e amici per l’aperitivo natalizio, nel rispetto di una tradizione che non è soltanto festosa. La coincidenza con la fine dell’anno ne fa, inevitabilmente, un momento di riflessione su questi giorni in fuga, che ci portano via cose e persone insostituibili. E che, adesso, ci hanno privato di una presenza. Forse la più attesa e qualificante al nostro appuntamento, quella di Giovanni Orelli. Proprio lui diventava subito un polo d’attrazione, creando intorno a sé una cerchia di interlocutori e ascoltatori, incuriositi e divertiti, non però in soggezione.

Questa situazione, per così dire di predominio, non era certo predisposta dalla regia dell’incontro, né tanto meno voluta da lui. In un ambiente del tutto informale, nasceva spontaneamente e confermava la forza di una personalità dai tratti incisivi, fuori dagli schemi abituali. L’uomo di cultura, di fama internazionale, era in grado d’imporsi anche sul piano della simpatia e dell’affabilità, che non sono doti tipiche degli intellettuali, categoria cui apparteneva a modo suo. Orelli, intellettuale lo era per meriti concreti, acquisiti lavorando sodo, come scrittore, poeta, traduttore, linguista, e come insegnante, risvegliando la passione per la lettura in varie generazioni di ticinesi, e anche come militante politico. Sembrava, invece, al riparo da qualsiasi vezzo snobistico, a cominciare dal sorriso-sberleffo esibito dagli appartenenti a quella casta che si considera depositaria esclusiva del pensiero corretto.

Ad accentuare questa lontananza dai canoni dell’intellighenzia, era soprattutto la sua dichiarata identità elvetica. Per carità, nulla da spartire con le derive nazionaliste che vanno di moda oggi. Mentre fra gli intellettuali ticinesi prevaleva il culto di un’italianità a volte rischiosa dal profilo ideologico, Orelli guardava, incuriosito, oltre Gottardo. Nella Confederazione, dove godeva di notorietà e stima, ravvisava un modello democratico ben funzionante e, grazie al plurilinguismo, una necessaria apertura verso altri orizzonti. Un mezzo, insomma, per sottrarsi alla trappola del regionalismo cantonale.

Con ciò, è sempre rimasto vivo il legame con la terra d’origine, la Valle Bedretto, protagonista, con il suo paesaggio, il suo clima, la sua gente, di tante pagine e tante ricerche. Del resto, Giovanni ne recava, fisicamente, le impronte: da montanaro solido e vigoroso, diventato, poi, un luganese d’adozione, e un cittadino aperto al cambiamento e ai luoghi lontani, in particolare New York, predilezione ovviamente apprezzata da parte mia.

Con Giovanni Orelli entrai in contatto, e tramite questo settimanale, alla fine degli anni Settanta. Come giornalista, e come madre, assistevo, sconcertata, al cambiamento in atto nell’ambito didattico ed educativo. Il ginnasio stava per essere sostituito dalle medie unificate e, nei programmi liceali di storia e letteratura, il percorso cronologico cedeva il posto ai cosiddetti «prelievi». Il termine incuriosiva e insospettiva. Per saperne di più, mi rivolsi a Giovanni Orelli, professore, per un’intervista. Non ricordo se, da quella conversazione, uscirono argomenti in grado di convincere i lettori della bontà di un cambiamento che portava l’impronta del ’68. Per quel che mi concerne, i dubbi sui «prelievi» permangono. E poco importa. Quel che conta fu l’avvio di una collaborazione fra l’«Azione» e Orelli che ha rappresentato un privilegio, sul piano professionale e umano.   

Nel corso dei decenni, la presenza di Orelli doveva trasformarsi, per via naturale, in un punto fermo. Si cercava un commentatore attuale di Dante, ed ecco che lui suggerisce il più giusto, Vittorio Sermonti. Un giovane scrittore chiede un giudizio per i suoi testi? E, di nuovo, si ricorre a Orelli. Si è in dubbio su una citazione? Sarà ancora lui a trarci d’impiccio. Ma, evidentemente, il rapporto non si limita a quello prezioso di una fonte enciclopedica. Ad attribuirgli un’altra dimensione è l’amicizia che ci ha riservato. Personalmente, in momenti difficili, ho apprezzato un suo bigliettino, una sua chiamata.