Fin dal suo nascere (per convenzione: nel 1839), la fotografia (parola che significa, etimologicamente, «scrittura di luce») «si pone come un nuovo modo di scrivere (di descrivere, di raccontare) la realtà, attraverso tecniche e metodi coscienti, scientifici». Non stupisce quindi che fin dagli esordi abbia suscitato l’interesse dei letterati. Con queste considerazioni si apre il saggio di Silvia Albertazzi (docente di Letteratura dei paesi di lingua inglese all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna) intitolato Letteratura e Fotografia.
Tra gli scrittori affascinati dal nuovo mezzo e dal nuovo linguaggio, Albertazzi menziona, fra gli altri, Edgar Allan Poe (che nel 1840 esaltò la «verità assoluta» del dagherrotipo, a suo parere «il più importante e forse il più straordinario trionfo della scienza moderna»); Gioachino Belli; Lewis Carroll; Maxime Du Camp (che scattò moltissime foto viaggiando con Flaubert nel vicino Oriente); Théophile Gautier; Emile Zola; Giovanni Verga (primo scrittore italiano ad acquistare una Kodak); Luigi Capuana e Federico De Roberto; August Strindberg; Paul Valéry (che nel 1939 tenne un discorso sul centenario della nascita della fotografia); Guido Piovene (che in un articolo del 1941 sottolineò per primo «quello che è uno dei più significativi apporti della fotografia alla scrittura: la scoperta dell’attimo, a cui fanno da corollario in letteratura la frammentazione dello sguardo, da un lato, e della durata, dall’altro»).
Dichiaratamente ostile al nuovo metodo per fissare le immagini fu invece un grande poeta, Charles Baudelaire, che alla fotografia – in cui vedeva il ripiego dei pittori mancati – assegnava il compito «di essere la serva delle scienze e delle arti». Un convincimento che non gli impedì – come ha notato argutamente Michel Tournier – di precipitarsi «anche lui da Nadar affinché la propria immagine fosse conservata per le prossime generazioni». Tournier – che si è dedicato con impegno alla pratica fotografica (con risultati modesti, a suo parere) – è autore di un romanzo, Il re degli ontani (1970), in cui sono fortemente tematizzate l’attività e la figura del fotografo: il protagonista, Abel Tiffauges, ha i tratti allarmanti del «predatore» (di bambini, per la precisione): raffigurazione che anticipa la tesi sostenuta da Susan Sontag in un celebre saggio del 1973, che nella fotografia individua uno strumento di predazione e di potere, oltre che un memento mori. Che l’immagine fotografica sia un simulacro in cui è inscritta la Morte – sia quella del soggetto raffigurato (del quale si deve necessariamente dire «è stato», in quanto còlto in un momento irripetibile e fugace), sia quella di chi ha scattato la foto e di chi la guarda – è l’idea-guida del non meno celebre saggio di Roland Barthes La camera chiara (1980).
Trattando della fotografia come tema letterario, Silvia Albertazzi prende le mosse dal «primo romanzo in cui la fotografia riveste un ruolo preminente», La casa dei sette abbaini (1851) di Nathaniel Hawthorne, dove il ritratto fotografico – quello del perfido giudice Pynchon – «si pone come un’autentica scrittura da decifrare e decodificare». Ma è a partire dalla seconda metà dell’Ottocento – quando diventano di moda gli album fotografici («attraverso cui gli individui organizzano i propri ricordi, raccontano la storia delle loro famiglie per immagini, costruiscono ed esibiscono la propria identità») – che la fotografia invade lo spazio letterario. Prendendo in considerazione le opere di alcuni autori (tra i nostri contemporanei: Andrei Makine, Jonathan Coe, Penelope Lively, Jonathan Safran Foer, Patrick Modiano, Annie Ernaux), Silvia Albertazzi illustra come la foto di famiglia, nella narrativa autobiografica, possa essere sia un mezzo per «ricercare un senso, oltre che di identità, di continuità e di appartenenza», sia uno strumento per «smascherare la falsità del ricordo».
Parla di molto altro il libro di Albertazzi. Parla dell’importante apporto teorico di John Berger; del fotografo come narratore e come personaggio (gli autori presi in esame, oltre a Michel Tournier, sono Gabriel García Márquez, Julian Barnes, Paul Auster, Graham Swift); della fotografia come risorsa metanarrativa (Vila-Matas, Modiano, Cortázar); dell’influenza esercitata dalla «poetica dell’istante» sulla scrittura e la visione frammentata dell’identità propria dei modernisti e di buona parte dei narratori del secondo Novecento; della moltiplicazione vertiginosa di immagini digitali che esaltano la componente fantasmatica di fotografie «destinate alla visione su uno schermo e raramente stampate». L’ultimo capitolo del saggio è dedicato ai photo-texts e ai photo-books. La lista delle opere e degli autori sarebbe lunga, perciò mi limito a raccomandare, a chi non lo conosca, il bellissimo Austerlitz di W.G. Sebald: un romanzo in cui, come scrive Albertazzi, «le fotografie aiutano a costituire una compresenza temporale di morti e vivi, personaggi reali e fittizi, grande Storia e storie private, raggiungendo una sorta di ‘infinito adesso’».