Negli ultimi mesi, chiunque segua da vicino la scena musicale angloamericana ha avuto modo di notare come il recente lockdown pandemico abbia incoraggiato parecchi artisti a tentare nuovi esperimenti creativi, certo favoriti dalla reclusione forzata; e una delle sorprese più gradite di questo difficile periodo è senz’altro costituito dall’inaspettato esordio solista di Matt Berninger, frontman della formazione statunitense dei The National. Un esordio tanto più sorprendente in quanto il 49enne Berninger si potrebbe, in effetti, definire come molto lontano dalla stereotipata immagine da «rockstar» a cui il pubblico internazionale è abituato; e del resto, non è un caso che, prima di convertirsi anima e corpo alla musica, l’allampanato e occhialuto nativo di Cincinnati abbia lavorato come pubblicitario.
Eppure, oggi, questo Serpentine Prison, prodotto nientemeno che da un «mostro sacro» dell’R&B quale Booker T, ci conferma come, al di là delle palesi tendenze da outsider, Berninger si possa definire uno dei migliori artisti della scena americana odierna. Non solo: l’album dimostra, nel miglior modo possibile, come l’impronta di Matt sia da sempre a dir poco cruciale nella cifra stilistica dei The National; basta infatti un primo ascolto al singolo di lancio dell’album (la struggente title track) per rendersi conto di come l’eterea, quasi ipnotica malinconia tipica della band di Cincinnati sia ormai parte integrante dell’immaginario personale del suo cantante.
Soprattutto, l’amarezza congenita del songwriting di Berninger, popolato da suggestioni di respiro introspettivo e spesso nichilista, convive con rinfrancanti momenti di sofferta autoironia – come accade nel videoclip di One More Second, il quale vede un serissimo Matt impegnato in un ballo improvvisato in totale solitudine, caratterizzato da mosse quantomeno improbabili; proprio come ci si immagina siano usi fare gli infelici personaggi di mezza età che popolano i brani dei The National. E quando il video giunge alla fine, mostrandoci il primo piano di un uomo accaldato quanto visibilmente angosciato, pare quasi di ritrovare, nel suo sguardo smarrito, tutta l’angoscia esistenziale espressa dall’intero repertorio della band. Ecco quindi che anche la timida reticenza di Matt – quell’aplomb da allampanato professore universitario, vagamente sociopatico, che l’artista ama ostentare – diviene una sorta di metafora, quasi la ricerca di un senso nell’eterna lotta impari contro la vita, evidente nella palpabile ansia della voce narrante: «concedimi ancora un po’ di tempo, concedimi appena un avvertimento; Baby, starò bene / non appena capirò dove sto andando».
Di fatto, l’intero album passa da una gemma all’altra: se una ballata lenta e avvolgente come Walking on a String, cantata in coppia con Phoebe Bridges, si inserisce a pieno diritto nel novero dei migliori brani intimisti del recente cantautorato USA, pezzi come Collar of Your Shirt – straziante riflessione sull’ostinazione a negare l’estraniamento di una persona amata, in cui le dolenti note del violino ammantano la confessione dell’io narrante di una disperazione evidente quanto trattenuta – dimostrano come la forza di Matt stia proprio nelle sfumature: perché è l’assoluta mancanza di enfasi a costituire forse la caratteristica più apprezzabile di quest’album.
Proprio come l’intera discografia dei The National ci ha abituati a una forma di songwriting scevra da qualsiasi autocompiacimento o facile scappatoia retorica, Matt mantiene la medesima integrità artistica anche in solitaria, bilanciando con rara maestria l’intensità dei sentimenti nei quali sceglie di volta in volta di immergersi – e restituendoli all’ascoltatore in una forma ulteriormente valorizzata e amplificata dall’interpretazione a tratti quasi dimessa, e da un sapiente quanto efficace sottotono emotivo. Così, un pezzo come il nichilista e struggente All For Nothing («ancora una volta, è stato tutto per niente») sembra uscire direttamente dal capolavoro Trouble Will Find Me, pubblicato dai The National nel 2013; proprio come avviene con lo struggente Take Me Out of Town e, soprattutto, con Loved So Little, forse il brano più amaro dell’intero disco – «perché è dura, essere amati così poco».
Certo, rispetto al lavoro dei The National, quest’album mostra uno spirito per certi versi meno sperimentale (soprattutto se si pensa agli ultimi due dischi della formazione), e maggiormente intimista, improntato al cantautorato più melodico; eppure, la potenza di Serpentine Prison sta nel fatto di riuscire a coniugare sapientemente tali caratteristiche, senza tuttavia mai scadere nella facile «pesantezza» da molti associata alle tematiche predilette da Matt. Così, l’intima, inconfessabile vulnerabilità che trasuda da ogni brano del CD diviene l’elemento senz’altro più prezioso dell’intera equazione, facendo dell’esordio solista di Berninger un piccolo capolavoro – una gemma nascosta che, per nostra fortuna, sembra prefigurare altre meraviglie a venire.
Un futuro di meraviglie
Matt Berninger, frontman dei The National, ammalia fans e critici con un esordio solista malinconico quanto autentico, ammantato di una vulnerabilità quasi dolorosa
/ 07.12.2020
di Benedicta Froelich
di Benedicta Froelich