Un Festival anomalo ma funziona

Locarno 2020 - Valutando con la direttrice artistica Lili Hinstin un’edizione ibrida e unica nella storia
/ 17.08.2020
di Nicola Falcinella

Cancellato il 73° Festival del film a causa della pandemia, Locarno non si è arresa e ha proposto un’edizione ibrida tra streaming e proiezioni in tre sale facendo di necessità virtù. La risposta in rete e in città è stata buona, sia dai professionisti del settore sia dal pubblico, una conferma del favore di cui gode la storica manifestazione e un invito a tenere duro per superare la situazione creata dall’emergenza sanitaria e per un ritorno alla normalità. Abbiamo cercato di tirare le somme di Locarno 2020 con la direttrice artistica, Lili Hinstin.

Lili Hinstin, come è andata, dunque?
Beh possiamo dire prima di tutto che siamo stupefatti dal meteo, sono state le giornate più belle da diversi anni durante il festival. Lascia amarezza la mancanza di Piazza Grande, ma è stata la scelta giusta e responsabile, non la rimpiango. In questo contesto sono soddisfatta di Locarno 2020, mantiene lo spirito del festival di scoprire i nuovi film e i nuovi autori grazie ai bellissimi «Pardi di domani». È un’edizione con il futuro al centro, con i «Pardi di domani», che dicono tutto nel nome, e con «Open Doors», che guarda ai nuovi equilibri mondiali e sostiene il cinema di Paesi giovani e molto popolati come quelli asiatici. Tra l’altro Thailandia, Indonesia e Vietnam hanno registrato in questi giorni il maggior numero di spettatori sul nostro sito. Il più visto è stato l’indonesiano No One Is Crazy In This Town di Wregas Bhanuteja: tutti i 1500 posti disponibili sono andati esauriti in 24 ore, tanto che ne abbiamo aggiunti altrettanti. C’è appetito per un cinema di solito difficilmente accessibile.

La proposta dei film delle sale ha ricevuto una buona accoglienza: si è vista una vicinanza dei cinefili, soprattutto del Ticino, al Festival.
Siamo contenti della frequentazione nelle sale di Locarno, anche se è poco in confronto alle situazioni del festival. Le regole sanitarie impongono un massimo di 250 spettatori a proiezione e stiamo riempiendo le sale in media al 70% della capienza. Siamo soddisfatti perché manca il pubblico festivaliero e nonostante questo c’è una risposta. È bello che ci siano i cinefili del Ticino. Si conferma un festival caloroso e con un’atmosfera fraterna, che ha i suoi amici che provano piacere nello stare insieme. Le proiezioni in sala erano rivolte a questo pubblico, non sarebbe stato giusto non programmare nulla una volta che le autorità avevano autorizzato la riapertura.

A parte Piazza Grande, qual è l’elemento del festival che le manca di più quest’anno?
La cosa che manca di più è la folla per strada che discute dei film e che corre da una sala all’altra. E mancano i film in concorso, per fortuna ci sono i «Pardi di domani». Mi piacciono molto i «Secret Screening», è stata una buona idea che sta dando soddisfazioni. Per esempio è andato molto bene Nemesis di Thomas Imbach, che era l’unico svizzero e uno dei pochi film nuovi, molto applaudito anche nella replica. Mi manca la scoperta e il fare da tramite con gli spettatori, presentare un film senza sapere come il pubblico lo riceverà, con quel misto di ansia e speranza. Mancano gli attimi prima della proiezione al Fevi in cui si aspetta vicino al palco in compagnia dei registi per presentare per la prima volta un film. Mostrare le opere è la base del nostro mestiere e resta, ma l’adrenalina e la scommessa, come accade per i film della Piazza, non ci sono.

Non c’è il concorso e non ci sono i Pardi, ma ci sono i progetti di «The Films After Tomorrow». Come li avete selezionati?
Scegliere solo 10 progetti è stato un incubo, perché erano tantissimi quelli interessanti. Avremmo potuto selezionarne anche 20, ma avrebbe cambiato l’architettura di Locarno 2020 per cui si era stabilito un budget e una struttura. Avrebbe significato aggiungere un piano a un edificio. Il team del Festival ha una reattività e un’elasticità che non ho mai visto da nessuna parte e tendo a fidarmi di loro. La selezione è stata come fare un puzzle, cercando di fare una cosa variegata e bilanciata e tanti lavori sono rimasti fuori. Trattandosi di un festival svizzero ci è sembrato importante assumere una posizione forte sul cinema svizzero: per questo abbiamo fatto una selezione a parte, per mettere in risalto la vitalità e la creatività della produzione nazionale.

Come vede la situazione del cinema elvetico?
Il cinema svizzero ha una storia molto interessante e cinefila, con autori come Alain Tanner o Daniel Schmid, e ha la fortuna di avere oggi una generazione di registi molto interessanti. Mi chiedo cosa può fare il Festival per questo e mi sembra perfetto per promuoverlo. Il riconoscimento che può dare Locarno ai film svizzeri è notevole, penso per esempio all’anno scorso: il ticinese Love Me Tender di Klaudia Reynicke è stato poi preso a Toronto e molti altri festival e L’Île aux oiseaux di Sergio Da Costa e Maya Koya che ha fatto il giro del mondo. Anche il Pardo d’onore a Fredi Murer andava in questa direzione, oltre alla felicità di accoglierlo in piazza dolce, ironico e divertente com’è. Abbiamo proposto i suoi film come fosse una piccola retrospettiva, affinché lo conoscessero i programmatori internazionali presenti qui e lo riprendessero in rassegne in tutto il mondo.

C’è qualcosa di questa formula ibrida che resterà nelle edizioni future del festival?
Ancora non è possibile dirlo. Ogni edizione porta degli insegnamenti e la prossima si costruisce sulla precedente. Ci sarà molto da capire e analizzare prima di andare avanti.

Ha messo la regista americana Kelly Reichardt molto in evidenza, presentando il suo film First Cow in apertura e inserendola nella giuria di «The Films After Tomorrow». Come considera questa autrice all’interno del panorama statunitense?
Reichardt è un simbolo dell’indipendenza. Lavora negli Usa, dove l’industria conta molto, ma è indipendente sia nella produzione sia nelle scelte. Fa un cinema che non assomiglia a nessun altro e sta costruendo le gesta dell’America, più ancora che degli Stati Uniti come Paese. Attraverso paesaggi, personaggi, situazioni e gesti quotidiani disegna un ritratto mai visto prima del proprio Paese. Il suo ultimo film è bellissimo e non ha ancora una distribuzione in Europa. Mi è parso stupendo poterlo condividere con il pubblico.

In questi mesi le sale cinematografiche sono rimaste chiuse e il pubblico si è abituato allo streaming. Come vede il futuro? Cosa cambierà? E possono esistere i festival in streaming?
Un festival tutto in streaming può esistere, ma non Locarno. Locarno è Piazza Grande, lago, montagne, pubblico e incontri. Con Reichardt nella prima serata abbiamo parlato della differenza tra sala e visione casalinga soprattutto per un film come First Cow che è un western e si pensa destinato a uno schermo grande. Secondo lei non è tanto questione di misure dello schermo quanto di concentrazione, perché a casa guardiamo il film mentre facciamo altre cose. Stiamo cambiando la struttura della nostra mente e questo è un punto cruciale. Non vogliamo fare i vecchi brontoloni, ma interrogarci senza convinzioni precostituite perché il mondo cambia. Tanta cinefilia di oggi si è formata attraverso il piccolo schermo, prima della tv e poi del computer, perché solo chi vive in poche grandi città, come Parigi, può vedere tutto in sala. Per questo lo scorso anno abbiamo dato il premio «Utopia» a Enrico Ghezzi per la sua trasmissione Fuori orario. Non bisogna essere contro il digitale, in fondo è il ripetersi dell’avvento della televisione. Ed è tutto in evoluzione.