L’esordio narrativo di Raffaele Donnarumma, sin qui noto soprattutto come uno dei più attrezzati studiosi di cose contemporanee, andrà senza indugio iscritto a quella che Gianluigi Simonetti ha definito «la letteratura di una volta». Il suo è infatti un romanzo sideralmente lontano da quanto oggi si scrive per la maggiore: lo è per la lingua e per lo stile; lo è per la caratterizzazione dei personaggi; lo è per la profondità e la finezza con cui sono trattati alcuni topoi o alcune situazioni di lunga tradizione; lo è per la relazione dialettica tra narrazione e riflessione saggistica, in un inesauribile movimento tra l’esperienza individuale dell’io, narrata al passato, e la legge universale del noi, espressa al presente. Insomma: per misurare lo scarto rispetto a ciò che scala le classifiche delle vendite, basterà il confronto con un romanzo di uscita quasi contemporanea, della stessa lunghezza e con un titolo analogo, come La vita intima di Niccolò Ammaniti; e sarebbero semmai meritevoli di qualche riflessione le diverse collocazioni editoriali dei due libri.
La trama è presto raccontata. Arrivato alla soglia della mezza età, R., professore di letteratura all’università e narratore della storia, deve fare i conti con il fallimento di una lunga relazione. Lasciato dal suo compagno S. per un gioco di tradimenti reciproci (viene tradito da S. e lo tradisce a sua volta con G.), R. cerca di riappropriarsi di una vita che lo spaventa. Si fa prendere dalla ossessione prima per la cura del corpo, poi per i siti di incontri. Proprio in Rete conosce L., un ragazzo di cui si innamora e con il quale vivrà una lacerante storia.
A me pare che il libro possa essere letto come un’ampia e variamente declinata riflessione sul concetto di distanza. Anzitutto quella che separa R. dagli altri personaggi, e in particolare dai tre uomini con cui ha delle relazioni affettive. Svuotata di passione appare ormai, dopo quindici anni, la relazione con il perennemente insoddisfatto S.; stancante l’avventura con l’eccessivamente entusiasta G.; lacerante la storia con lo scostante e depresso L. Distante è anche Anna, l’amica dei tempi dell’università trasferitasi a Berlino con cui R. si confronta alla ricerca di consigli: lo è fisicamente (i due si sentono solo via Skype), e lo è emotivamente (Anna assume il ruolo di una madre castratrice che finge di preoccuparsi dell’amico per non affrontare i propri fantasmi). E andrà inoltre almeno marginalmente notato come il romanzo renda incolmabile anche la distanza rispetto ai padri (al plurale), non foss’altro che per il fatto che «un omosessuale è anzitutto un uomo che ha deciso di non essere padre». Distanti, infine, appaiono i colleghi di università di R. (quello di Donnarumma è anche un romanzo sull’accademia).
Anche l’interiorità del protagonista appare lacerata da una serie di conflitti, e il dolore si dà proprio nel campo di tensione tra elementi difficilmente conciliabili. Oltre alla vita che egli conduce di nascosto, c’è dunque una vita nascosta che si consuma nella profondità di R. Le opposizioni mi paiono essenzialmente tre. La prima è quella tra pulsione alla trasgressione e funzione normalizzante del Super-io, tanto più problematica per un personaggio che dice di doversi sempre assumere le proprie responsabilità di fronte agli altri, e che tende a reprimere il desiderio riportandolo «dal buio della vita psichica al giorno della responsabilità morale». Desiderio che al protagonista appare a tal punto indispensabile da portare all’autoinganno, alla faticosa forzatura della realtà affinché questa coincida con l’idea; con conseguente delusione nel momento della presa di coscienza della loro più o meno ampia discrepanza, come accade quando egli scopre che l’L. reale non coincide con quello a lungo vagheggiato. Un dolore che non potrà tuttavia mai eguagliare quello determinato dalla scoperta di non essere amati, poiché «per quanto duro e ostinato possa essere il nocciolo dei nostri desideri, niente riesce a frantumarlo quanto il bisogno di essere desiderati» (desiderio e derivati occorrono peraltro cinquantanove volte nel testo).
Il secondo conflitto, che da questo deriva direttamente, è quello tra realtà e virtualità, sviluppato in pagine indagabili anche alla luce dell’esergo pascaliano (Bisogna amare solo Dio e odiare solo sé stessi). Da una parte, Internet è lo spazio privilegiato per la costruzione del desiderio e della dipendenza dal desiderio, il luogo «che apre davvero ai paradisi» (non so se i paradisi di Raffaele Donnarumma siano sitianamente Troppi, ma l’uso del plurale pare significativo). D’altra parte, tuttavia, Internet permette di smorzare proprio le pulsioni più inconfessabili. I comportamenti nell’immaterialità della Rete possono inoltre rimodellare profondamente la realtà, sottraendole spazi e attenzioni. Una realtà che per R. è fatta anche di libri, ormai frequentati con minore assiduità: il senso di colpa non nasce (o non nasce esclusivamente) dall’aver trascurato un’occupazione culturalmente più nobil(itant)e, socialmente più accettabile, moralmente migliore, ma anche dalla presa di coscienza di avere perso l’occasione, attraverso il libro, per un destabilizzante incontro con l’altro (mentre la Rete ci fa magicamente trovare proprio ciò che cerchiamo; e più siamo monotoni nella ricerca, più la istruiamo sulle nostre ossessioni).
Il terzo motivo di dissidio è quello tra realtà e tentativo di definirla (in particolare attraverso l’ipertrofico ricorso al paragone e alle strutture elencative), il cui scacco è peraltro esplicitamente ammesso dal protagonista quando dice che ogni narrazione, essendo falsa, «è incapace di rendere gli sbalzi aritmici e i vuoti di cui siamo fatti».
Un’altra distanza è quella, incalcolabile, che separa il tempo dell’esperienza del personaggio R. dal tempo del resoconto che ne fa il narratore R., e che apre alla cruciale riflessione sul ruolo della memoria, le cui possibilità (confermare alcune intuizioni, garantire conoscenza ulteriore, rimuovere un dolore) sono quasi sistematicamente rimesse in discussione dalla presenza di un tratto dissonante, per cui, sulla scorta del libro di Giobbe, «non sono gli anni a dare la sapienza, né sempre con l’età si distingue ciò che è giusto».
La vita nascosta è un romanzo che non teme di essere letterario, anche attraverso la presenza dei nomi e delle opere che compongono la vasta musico-biblioteca di R., ma senza che ciò determini l’esibizione snobistica del professore (personaggio e autore) che guarda dall’alto al basso i propri interlocutori (personaggi e lettori). Andranno semmai indagate le relazioni tra quei nomi (Svevo, Roth, Houellebecq, Pasolini, Siti, …; Wagner, Händel, …) e il modo di agire e di pensare del protagonista R.; così come sarà premura di chi si dedicherà compiutamente al romanzo identificare i modelli musicali e letterari che determinano le strutture profonde del testo e non solo quelli che ne increspano la superficie.