L’eutanasia, la politica israeliana e le riflessioni sul cinema. Sono i temi in evidenza nei film dei primi giorni del 74esimo Festival di Cannes, in corso da martedì fino a sabato, quando si conoscerà il successore di Parasite nel palmares. Dopo un’edizione saltata a causa della pandemia, la manifestazione vuole con ottimismo celebrare il ritorno delle pellicole e delle star sulla Croisette, tanto da chiamare il regista coreano Bong Joon-Ho a inaugurare e ricollegarsi idealmente al 2019.
L’inizio è stato interessante con tanti personaggi che, nonostante le mascherine e i tentativi di mantenere il distanziamento in spazi affollati, hanno mostrato vicinanza e voglia di ritrovarsi e vedere film. Jodie Foster, a 45 anni dalla sua prima volta con Taxi Driver, ha ritirato la Palma d’oro d’onore dalle mani di Pedro Almodovar, ringraziando in un francese perfetto che ha suscitato l’invidia di Spike Lee, presente nel ruolo di presidente di giuria. Un’altra Palma alla carriera sarà consegnata venerdì a Marco Bellocchio in occasione della presentazione del documentario Marx può aspettare sulla propria famiglia.
Film d’apertura è stato Annette di Leos Carax regista di culto che non realizzava un lungometraggio dal 2012, da Holy Motors che fece innamorare i festivalieri proprio a Cannes, anche se non ottenne premi. Il cineasta francese, noto anche per Rosso sangue e Gli amanti del Pont-Neuf, ha portato un musical molto ambizioso nel voler compendiare la storia del genere, dai classici fino a La La Land, e insieme voler andare oltre e creare qualcosa di nuovo. È un film che spiazza, ma in modo diverso rispetto ai suoi precedenti, in apparenza meno scoppiettante e con meno trovate.
Henry (Adam Driver, come sempre calato nel ruolo) è un comico che non fa ridere e usa i suoi monologhi come provocazione: ma quanto è sfida e quanto invece è una confessione? Del resto forse in un momento lo ammette: «la comicità è l’unico modo per dire la verità senza essere ucciso». All’inizio le ombre della sua vita sono nascoste dall’amore travolgente per la celebre cantante Ann (Marion Cotillard), ma dopo la nascita della loro figlia Annette tutto cambia. La neonata è un po’ Pinocchio e un po’ bambola dei film horror e rivela fin da piccolissima un talento canoro che porta il padre a farla esibire in tutto il mondo richiamando grandi folle. Così dal pop-rock (le musiche sono degli Sparks) si passa all’opera di Verdi e Puccini a completare il melodramma. Un film assai complesso che merita di essere visto (e forse rivisto) e suscita riflessioni che non si fermano a un livello superficiale.
Holy Motors ricorre spesso in The Story of Film: A New Generation di Mark Cousins, il regista irlandese noto per i 15 episodi della serie documentaria The Story of Film: An Odyssey (2011), che ripercorreva l’intera storia del cinema, riprende il discorso per parlare del nuovo e del cinema di oggi. Anche in questo caso una visione quasi frastornante, ricca di esempi e citazioni, che riflette sui cambiamenti che la tecnica (il digitale, le go-pro, i telefonini, il moltiplicarsi dei modi di ripresa e degli schermi) hanno portato nel linguaggio del cinema, portando a nuovi modi di realizzare commedie, film d’azione o horror. Cousins fa accostamenti, come tra Mad Max: Fury Road e The General di Buster Keaton, meno azzardati di quanto possa apparire e parla tanto di cinema orientale, da Bollywood al tailandese Apichatpong Weerasethakul al filippino Lav Diaz, perché parecchie novità recenti vengono da là. Un documentario bello e ottimista, che mostra la vitalità del cinema e la sua centralità anche nell’era dello streaming.
In concorso anche Tout s’est bien passé di François Ozon, uno dei cineasti più prolifici in circolazione (Estate ’85 è dello scorso anno) che di prova in prova dimostra un’intelligenza e una sensibilità sempre più acute. Dal romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim (interpretata da una convincente Sophie Marceau), racconta la malattia dell’anziano padre e il suo desiderio di farla finita chiedendo aiuto alle figlie. Un film toccante sui legami famigliari, le cose belle della vita, l’affrontare la morte e l’eutanasia, senza prese di posizione aprioristiche ma con una grande partecipazione con i personaggi.
Meno convincente Ahed’s Knee del franco-israeliano Nadav Lapid (già Orso d’oro nel 2019 con Synonymes), protagonista un regista che attacca in modo diretto le interferenze e le censure del governo di Israele verso gli artisti non allineati alla propaganda.