Con alcuni compagni ci incrociavamo sulle scale del Liceo o nei corridoi: uno sguardo in tralice e con voce gutturale, strascicata, ci rivolgevamo un saluto in codice: «Ciao Mario!» «Ciao Mario!» «C’ho la bocca amara...» «Prepara il minestrone, che arriva Vigorone...». Era un saluto quasi carbonaro, complice, da rivolgersi ad occhi socchiusi, con la testa leggermente inclinata indietro. Un segnale di appartenenza alla categoria degli appassionati e adepti al culto di Renato Pozzetto.
Può sembrare un’esagerazione, oggi. Ma molti dei miei coetanei, lo affermo per esperienza concreta, avevano avvertito la profonda umanità e anche la carica «contestataria» di quel modo di fare spettacolo. Cochi e Renato erano due meteore nel mondo ancora abbastanza sussiegoso dell’intrattenimento televisivo, fatto ancora di Canzonissime e sceneggiati romanzeschi. Era, con nostro grande sollievo, l’irruzione nei moduli formali e benpensanti di uno stile cabarettistico, irriverente, pieno di mezze allusioni e di parodie, di tormentoni idioti e dadaismo da osteria.
In quel repertorio si trovava di tutto: dallo sbeffeggio alla poesia carducciana e dannunziana alla presa in giro del linguaggio mediatico («Notisiario della Valtrompia; nel pomeriggio della giornata di oggi un fulmine a ciel sereno ha colpito un gregge di pecore. I famigliari sono stati avvertiti»). C’erano le canzoni nonsense di una bellezza inaspettata e piene di un gusto goliardico che ripagava da tante brutture del canzonettismo italiano di allora: il successo di brani come E la vita l’è bèla («basta avere l’ombrèèèla»), come Lo sciocco in blu, si può spiegare solo come una reazione ad altrettanti nonsense serissimi a cui sottometteva l’industria discografica nazional-popolare. C’era poi la presa in giro del sistema scolastico, paternalista e anche corrotto («Problema: il vostro maestro guadagna lire 150’000 al mese. Sapendo che di affitto paga lire 60 mila, di vitto lire 50mila, di trasporti lire 30mila e che ha 20mila lire di spese varie, la domanda è: come si fa ad essere promossi? Nella soluzione fatevi aiutare dai vostri genitori...»).
Non sono sicuro che se Cochi e Renato si presentassero oggi a un’emittente televisiva, proponendosi con il loro stile anticonformista, sarebbero accettati. Probabilmente abbatterebbero le pareti della casa del Grande Fratello, o cercherebbero di sabotare qualche altro barone dell’intrattenimento mettendone in ridicolo la figura. C’è solo da meravigliarsi che siano riusciti a farsi largo in quell’epoca. E tutto sommato anche la società di allora si interrogava sul loro successo: una curiosa copertina della «Domenica del Corriere» del 22 dicembre 1978 riassume in un titolo quel fenomeno culturale: Perché ci fanno ridere Renato, Cochi e Villaggio. L’Italia in crisi ha bisogno di serenità.
Si torna a riflettere su quell’inimitabile stagione dello spettacolo televisivo perché Renato Pozzetto festeggia in questi giorni i suoi ottant’anni. Lo si celebra un po’ come un’eminenza grigia nel mondo della creatività. Rimangono impressi alle generazioni più giovani certi suoi intercalari, resi popolari da alcuni suoi film che non passano mai di moda, i suoi «Taac!» e gli «Eh, la madooona!», del Ragazzo di campagna o della Casa stregata, ma credo che ai più sfugga quanto il suo umorismo sia stato davvero dissacrante e persino coraggioso, negli anni 70.
Ne avevamo parlato anni fa con Enzo Jannacci, che di Pozzetto e di Cochi Ponzoni era stato indubbiamente mentore (e lo stesso Pozzetto lo riconosce in una bella intervista rilasciata negli scorsi giorni a «Repubblica»).
Jannacci ci aveva raccontato, tanti anni fa a Campione: «Pozzetto è unico. È uno che è capace di arrivare da me con una frase tipo “Nebbia in Valpadana, calmi gli altri mari”. Una frase che è una folgorazione; non ho saputo resistere, ne è venuta fuori una canzone». Per la cronaca era la sigla di una serie televisiva andata in onda sulla RAI negli anni 90.
Ma per tornare agli anni 70, per noi giovani liceali l’umorismo assurdo di Pozzetto era una chiave di lettura al contrario del mondo. Un modo di prendere in contropiede le certezze e le incoerenze di un periodo complicato. C’era la crisi petrolifera, c’era la fine del boom economico, c’era il pericolo del terrorismo e della guerra fredda. Cochi e Renato rispondevano con le canzoni sul «Piantatore di pellame che era infelice perché lui non piantava caffè perché cresceva da sé» e con il monologo di Tacchi, dadi e datteri, la storia assurdamente verosimile di uno che voleva costruire un supermercato su un precipizio: «In pianta, il terreno fa venti centimetri».
Fatte le debite proporzioni, mi viene da pensare che lo stile di Renato Pozzetto sia stato per noi quello che l’umorismo di Totò era stato per la generazione di mio padre. Nel dopoguerra si sentiva il bisogno di rompere con il grigiore e il formalismo fascista, c’era il bisogno di essere, finalmente, ingenuamente svagati e magari liberamente stupidi. Al «Siamo uomini o caporali», insomma, rispondeva «La gallina è un animale intelligente, lo si capisce da come guarda la gente» e offriva lo stesso strampalato aggancio per dissacrare il mondo culturale d’élite, visto con gli occhi del pubblico d’avanspettacolo. Come Totò, anche Pozzetto ha calcato i palchi del teatro di cabaret da mattatore, anzi da marionetta impersonale, capace di suscitare la risata e l’identificazione immediata con il «popolo».
Ma non era soltanto gigioneria: dietro l’umorismo stralunato di Cochi, Renato, Jannacci, Andreasi e degli altri al Cabaret Derby c’erano le tracce ben evidenti del teatro di Beckett e Ionesco, c’era la vena dissacrante di certa drammaturgia d’avanguardia.
«È la testa che bisogna cambiare. E non lo vogliono capire!» è forse la frase riassuntiva di questo atteggiamento. È l’ultima battuta dal primo film di Pozzetto, Saxofone, 1978. A cambiarci la testa, lui, Jannacci e gli altri, a volte, credo che un poco siano riusciti. Grazie di cuore, e auguri!
Un anti-divo d’enorme successo
Renato Pozzetto compie ottant’anni, sessanta dei quali trascorsi a farci ridere con il suo originale umorismo
/ 27.07.2020
di Alessandro Zanoli
di Alessandro Zanoli