Un anno cruciale per i tenori

Nel 1921 il mondo della musica classica vide la morte di Caruso e la nascita di Corelli e Di Stefano
/ 13.09.2021
di Giovanni Gavazzeni

1921, anno quanto mai turbolento per la Penisola italiana, investita da violenze sanguinarie non domabili dal dieci volte Presidente del Consiglio, il liberale Giovanni Giolitti.

È l’anno in cui Gabriele D’Annunzio lascia l’impresa di Fiume, dopo aver governato la città istriana con il celebre colpo di mano di cui ha parlato tutto il mondo. Arturo Toscanini gli ha reso omaggio musicale portando fra i legionari fiumani la neo-rifondata Orchestra della Scala («la Legione Orfica», secondo l’Immaginifico Comandante-Poeta), prima di trionfare nelle tournée in America e in ogni teatro d’Italia. Il 2 agosto muore a Napoli, a soli 48 anni, il tenore che ha incarnato il mito moderno del canto italiano, Enrico Caruso. Con lui Toscanini ha tenuto a battesimo il simbolo del teatro verista, Pagliacci di Leoncavallo e l’opera che Puccini scrisse per la Metropolitan Opera di New York: La Fanciulla del West.

Nello stesso fatidico ’21 nascono due futuri astri della chiave di tenore: l’8 aprile ad Ancona, Franco Corelli; il 24 luglio a Motta sant’Anastasia nell’agro di Catania, Giuseppe Di Stefano. Entrambi diverranno beniamini del pubblico mondiale, partendo dai successi che colgono sul temuto palcoscenico del Teatro alla Scala, in cui si passano il testimone in leggendarie serate d’inaugurazione.

Corelli e Di Stefano hanno personalità opposte. Il primo è riservato, oculato, parco. Gira il mondo con la fedele moglie-consigliera Loretta Di Lelio. Veste con sobria eleganza. Ha un fisico prestante non da tenore ma da attore di film peplum (eccellerà anche in opere togate, Norma, Vestale, Poliuto, Giulio Cesare). Leggendaria in un artista con una voce così possente e squillante la paura del palcoscenico che lo torturava dal momento in cui si svegliava a quando doveva andare in scena. Si ritirò dalle scene con ampio anticipo, tormentato sempre dal non sentirsi in condizioni ottimali.

Al contrario Di Stefano era estroverso, guascone, prodigo fino all’autolesionismo. Alla sua voce calda e sensuale bastavano due parole per sedurre la sala intera. Esordì come tenore lirico e si spinse in ruoli più drammatici senza risparmiarsi anche nelle tessiture più pesanti di Puccini (Tosca) e Mascagni (Iris e Cavalleria). Il celebre Pippo volava in scena in qualunque condizione, dopo aver passato nottate al casinò o viaggiato su fuoriserie decappottabili, incurante di malanni e conseguenze. Turbolento nella vita privata: due matrimoni e innumerevoli flirt, proseguì a cantare fino quando ebbe un filo di voce. Fu l’unico capace di convincere la storica partner di entrambi, Maria Callas, a tornare a cantare per i «concerti d’addio», che in coppia tennero per il mondo nel 1973, dopo il devastante naufragio della relazione fra la Diva e il miliardario greco Onassis.

Corelli e Di Stefano, come Caruso, diverranno popolari nel mondo attraverso le registrazioni discografiche, entrambi sotto contratto con la Voce del Padrone. Con la Callas, Di Stefano incise memorabili opere complete; Corelli solo Norma, proseguendo a incidere i suoi ruoli indimenticabili di tenore romantico disperato ed eroico, con altre grandi soprano: Radamès (Aida) e Turandot (Calàf) accanto a Birgit Nilsson, Trovatore con Gabriella Tucci, Andrea Chénier con Antonietta Stella, Roméo con Mirella Freni, Don José con Leontyne Price.

Le loro vite parallele si potrebbero raccontare come in una celebre serie televisiva degli anni 70, Attenti a quei due. Corelli nella parte di Roger Moore, il britannico composto ed elegante; Di Stefano in quella di Tony Curtis, l’americano ricco e un po’ esibizionista.

Intanto per ascoltarli e vederli conviene approfittare di una mostra «interattiva», curata da Mattia Palma, visitabile sul sito del Teatro alla Scala (www.teatroallascala.org).

Caruso, fondatore della leggenda aurea del tenore italiano moderno, idolatrato dalle folle, strapagato per recital e incisioni discografiche, è una leggenda italiana proseguita da Beniamino Gigli, Mario Del Monaco, Carlo Bergonzi e Luciano Pavarotti, stelle che vanteranno numerosi tentativi di imitazione. Invece di ricordare i pallidi emuli di quel ricco firmamento vocale, non dimentichiamo i «rincalzi» di quei super divi, la cosiddetta «seconda fila», dove trovarono spazio interpreti più limitati vocalmente, ma dotati di personalità e strumenti di spicco come Cesare Valletti, Ferruccio Tagliavini, Gianni Raimondi, Giuseppe Campora, Bruno Prevedi, Flaviano Labò, Gianfranco Cecchele.