Tutto il metal di una voce lirica

Alla scoperta di Marina Viotti che quest’anno ha ricevuto il Premio svizzero della musica
/ 12.12.2022
di Davide Fersini

Charme, eleganza e misura. Sono le doti che colpiscono immediatamente chiunque abbia modo di trovarsi a quattr’occhi con Marina Viotti. Poi, durante la conversazione, emergono la consapevolezza, la lungimiranza e l’esperienza di una giovane professionista che ha già vissuto due vite o forse anche tre. Il cognome è di quelli illustri, ma il nome – almeno in ambito classico – è iniziato a circolare solo pochi anni fa. In breve, però, al mezzosoprano ginevrino sono state spalancate le porte dei più prestigiosi palcoscenici.

Quando si è accorta che la sua non era una famiglia normale?
Molto tardi. Noi vivevamo veramente in un mondo parallelo e per un po’ di tempo non mi sono resa conto che la quotidianità degli altri era diversissima dalla nostra. Un padre direttore d’orchestra, una madre violinista, due fratelli cornisti e un altro anche lui direttore; la musica «classica» era il nostro lessico famigliare. Ma c’era anche moltissimo amore e tanta libertà: nessuno è stato obbligato a studiare uno specifico strumento e tanto meno la musica. Ovviamente, però, vivere in quel mondo ci ha influenzati: i teatri, le sale da concerto, i grandi cantanti con i loro magnifici costumi e il trucco esagerato. Come poteva una bambina resistere a quel richiamo? Così, a otto anni ho dichiarato ai miei genitori che avrei fatto la cantante e loro prudentemente mi hanno iscritta a flauto. «Per cantare è presto, – mi dissero – ma puoi iniziare a farti il fiato!» Poi, però, quando è arrivata l’età giusta, mio padre è scomparso e io mi sono allontanata sempre più dalla musica classica. Mi sono laureata in lettere e filosofia e parallelamente ho iniziato a cantare in una band metal, i Night-whish. Un’esperienza epica! Voce lirica, amplificatori, distorsori e un pubblico che in alcune serate raggiungeva i cinquemila spettatori. Purtroppo ben presto mi sono accorta che il metal non avrebbe pagato i miei conti e così mi sono iscritta a un master in management culturale. È stato il destino a riportarmi in teatro: per il tirocinio mi hanno affidato la cura del marketing di un festival di musica classica e finalmente sono tornata nel mio mondo.

Un lieto fine, insomma.
Piuttosto un nuovo inizio; e non dei più semplici. È inutile negarlo, il mio cognome ha aperto molte porte, ma soprattutto perché nei teatri c’era la grande curiosità di sentire come cantava la figlia di Marcello Viotti. Gli inviti alle audizioni arrivavano a mazzi. E l’aspettativa era molto alta! Dal punto di vista psicologico è stata durissima. Dovevo essere all’altezza del mio cognome e nel contempo combattere la «sindrome dell’impostore» – in un angolo della mia psiche c’era la convinzione che mi scegliessero solo per chi ero e non per come cantavo. In più, prima di ascoltarmi, tutti volevano esprimermi cordoglio e raccontarmi qualcosa su mio padre, rischiando così di produrre effetti disastrosi sulla mia performance. Alla lunga però sono riuscita a corazzarmi e durante questi primi anni di carriera ho imparato qualcosa che allora non sapevo: nessuno può resistere a lungo nel teatro d’opera senza avere delle qualità reali.

A questo punto inizia una nuova vita come mezzo-soprano. Si identifica con la sua vocalità
Totalmente! Non ne vorrei una diversa. C’è in me una componente molto androgina che si diverte un mondo a interpretare i ruoli en-travesti con tutte le possibili declinazioni del maschile come Cherubino, Octavian, Sesto. Recentemente ho cantato Stefano nel Roméo et Juliette di Gounod e ho dovuto imparare a combattere con una spada; un’esperienza entusiasmante! Poi c’è la componente più femminile del mezzosoprano, tutta giocata nel segno della sensualità con i ruoli da femme fatale come Maddalena o Carmen. Insomma, è un tipo di vocalità molto versatile che permette di impersonare ruoli lontanissimi fra loro e questo è un dono impagabile per un’attrice!

È interessante che lei parli di sé come attrice. Per quanto riguarda la recitazione, il mondo dell’opera è cambiato moltissimo negli ultimi anni. È finita, forse, l’era del belcanto?
Dobbiamo essere onesti. A parità di talento e qualità musicali, oggi si sceglie l’interprete che più soddisfa le richieste della regia. La voce non basta più. Qui entra in gioco una componente fisica – oltre che estetica. – che ci impone di essere in forma e agili, per poter assecondare al meglio ogni necessità di palcoscenico. A questo, poi, si deve aggiungere un altro aspetto che in passato contava in maniera marginale: non solo bisogna saper cantare e recitare in maniera superba, ma è necessario avere sotto controllo la propria immagine pubblica. A volte ho l’impressione che questo impegno costituisca il 50% della nostra attività di artisti. Nessuno ti insegna come si fa, ma ormai è parte integrante della professione e tutti si aspettano che tu sappia farlo.

Questo ci porta al Premio svizzero di musica 2022. Per iniziare una domanda secca: se lo aspettava?
No, per nulla! Non sapevo nemmeno di essere nella lista dei finalisti. L’ho scoperto solo a cose fatte: ero in macchina e stavo guidando quando ho ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto. Normalmente non avrei risposto, ma si trattava di un prefisso svizzero e ho pensato che potesse essere un parente, un teatro o qualche ufficio pubblico. E in effetti era l’Ufficio federale della cultura che mi cercava per darmi la bella notizia.

«Versatilità tecnica e interpretativa fuori dal comune, che la fa sentire a proprio agio in repertori di stili ed epoche anche molto distanti». Sono le motivazioni date dalla giuria del premio, cosa ne pensa?
Mi commuove, perché questo non è un premio per la mia voce; è un premio per i miei progetti, per la mia personalità, per la mia visione del canto e per il messaggio che cerco di far passare nei concerti. Sin da quando ho iniziato la carriera di mezzosoprano, ho sentito la necessità di aprirmi ad altri mondi, di costruire ponti tra i generi musicali e tra i diversi tipi di pubblico. Le motivazioni di questo riconoscimento, quindi, mi emozionano particolarmente: sono la prova che la missione che mi sono data e gli sforzi che ho fatto per realizzarla sono stati percepiti e apprezzati. Gradualmente anche le istituzioni musicali si stanno accorgendo che il pubblico spinge per un rinnovamento delle formule rituali e questo non può che farmi piacere!

Un rinnovamento nei contenuti, dunque, non è più sufficiente?
In effetti quello è solo il punto di partenza. Prima della lirica, ho cantato il metal, il jazz, la chanson e ho sempre avuto una fortissima curiosità verso le comunità musicali distanti dai miei gusti. Col tempo mi sono accorta che l’opera e la musica classica soffrono – in quelle comunità – di un’immagine un po’ stantia, come se si trattasse di generi che possono essere apprezzati solo da un’élite, sia per i prezzi sia per i contenuti. Ovviamente sono consapevole che si tratta di stereotipi, ma per modificarli e allargare il pubblico bisogna provare nuove forme, nuove vie della performance. Così ho iniziato a lavorare sull’unico tipo di spettacolo in cui l’interprete possa avere il controllo totale: il recital di canto e pianoforte. Si tratta di un intrattenimento da salotto che ha conquistato i teatri nel corso del Novecento, ma lentamente è diventato sempre meno popolare anche fra i melomani più accaniti. Perché? Perché nel nostro presente nessuno può sopportare una star della voce che entra in palcoscenico, canta lieder di Schubert per un’ora e mezza e poi se ne va senza dire nemmeno una parola; non solo è noiosissimo, è anche aberrante.

Quindi? Che fare?
È necessario coinvolgere gli spettatori – come si fa durante i concerti metal o jazz – e per farlo il cantante deve essere pronto a raccontare una storia, a creare percorsi alternativi attraverso i generi, a stimolare risposte; in poche parole, a dialogare con le persone. Le prime volte, io stessa mi sono chiesta se stessi facendo la cosa giusta e se il pubblico avrebbe capito le ragioni di un accostamento fra melodie classiche e canzoni della world-music. Per fortuna in Svizzera c’è molta apertura verso l’ibridazione e tutti i miei esperimenti sono stati accolti con grandissimo calore. Questo mi ha permesso di continuare a esplorare nuovi repertori e arricchire la mia personalità, la mia voce e i miei concerti. D’altronde non avrei potuto fare altro. Questa è la mia cifra: una insaziabile curiosità musicale.